SECOLO A TINTE FORTI
L’appuntamento Una mostra a Forlì mette in luce le mille variazioni artistiche di un’epoca drammatica che si concluse con due giganti DAL SACCO DI ROMA, AI DIKTAT DEL CONCILIO LE SCELTE DEI PITTORI (FINO A CARAVAGGIO)
ÈRitorno al vero Tramontato il Manierismo, il Merisi e Annibale Carracci ridiedero vigore all’arte con l’«imitazione del naturale»
probabile che, per quanto amplificato dalle immagini video, l’attacco alle torri gemelle di New York non lascerà una cicatrice indelebile nella storia dell’occidente come quella prodotta dal sacco di Roma, ancora ben riconoscibile, dopo cinquecento anni, persino in espressioni come «sono passati i Lanzichenecchi». Lo scisma di Lutero nel 1517 e il sacco della città eterna nel 1527 ad opera dei protestanti assoldati dal cattolicissimo re di Spagna, Carlo V, fu infatti uno shock tale che incrinò per sempre le serene certezze del Rinascimento cambiando non solo il pensiero, ma anche l’estetica del tempo, come non è avvenuto in modo altrettanto radicale dopo l’11 settembre.
In seguito al Sacco, durato nove mesi con atrocità inenarrabili, un’ombra di malinconia deturpò per sempre la bellezza perfetta che per un breve periodo, con gli affreschi della cappella Sistina di Michelangelo e della Scuola di Atene di Raffello, aveva riportato la cristianità ai fasti dell’età classica. Niente fu più come prima. Incertezza, irrazionalità e disorientamento produssero un’arte stanca che mescolava stili diversi senza il collante delle idee. Morto Raffaello nel 1520 e Leonardo nel 1519, tutti guardavano a Michelangelo, tormentato a sua volta da ansie religiose, come al più autorevole sopravvissuto della «grande maniera». Solo un rivale gli faceva ombra da Venezia: Tiziano.
Intorno a questi due giganti si muoveva una moltitudine eterogenea di pittori di cui dà conto la mostra forlivese cercando di mettere ordine fra diversi idiomi che avevano in comune un’unica attitudine stilistica chiamata Manierismo. Importato dal linguaggio di corte medievale in lingua d’oïl, manière significava disinvoltura, eleganza, raffinatezza, grazia cortese, ma nel XVI secolo il termine passò nel vocabolario artistico come sinonimo di artificio. L’arte si disinteressò all’imitazione della natura e si rifugiò nel capriccio e nell’irrazionale. Diventò «cosa mentale» e a poco a poco si fece talmente ermetica ed elitaria da rendere necessari i manuali di iconologia per interpretare enigmi e rebus di una decorazione carica di fiabe mitologiche, allegorie ed emblemi.
Nelle strade, però, le carestie, la povertà e le malattie esasperavano lo scandalo di una Chiesa sfacciatamente peccaminosa e ricca. Consapevole di dover avviare una politica riformista e deciso a mettere un argine alle simpatie per il Protestantesimo, Paolo III, ammiratore di Erasmo, convocò nel 1545 il Concilio di Trento che si concluse soltanto nel 1563, ma dal quale uscì la cosiddetta Controriforma. Ai pittori furono dettate precise norme su come decorare le chiese: l’arte doveva tornare a parlare agli analfabeti con rappresentazioni sem- plici e didattiche; basta col capriccio, l’irrazionalità, le fiabe pagane, e persino i nudi di Michelangelo nella Sistina furono ricoperti.
Naturalmente, come si vede dall’antologia di autori in mostra, tali norme codificate in tempi lunghi, vennero declinate in modi diversi: si va dallo stile artificioso e pio di Scipione Pulzone, all’assorbimento dell’arte nordica di Dürer in pittori tra loro differenti come Pontormo, Lotto e Luini, al trionfo della correttezza accademica in Jacopo Zucchi o nel cavalier d’arpino. Ma sul finire del Cinquecento questo linguaggio stanco si esaurì in formule vuote e ripetitive e in tale scenario stagnante apparvero finalmente due figure capaci di ridare vigore all’arte grazie al ritorno all’«imitazione dal naturale»: Annibale Carracci e Michelangelo Merisi.
Sul breve periodo Caravaggio sembrò vincerla su Annibale perché divenne subito l’idolo dei giovani pittori di tutta Europa grazie alla sua radicale ricerca del vero che spazzava via la prudenza del «decoro» raccomandato dalla Chiesa.
Ma dopo la sua morte nel 1610 fu lo stile ampio, luminoso ed armonioso dispiegato da Carracci nella volta di Palazzo Farnese ad avere la meglio e ad ispirare le mirabilia dei futuri soffitti barocchi.
La ferita del Sacco dei protestanti cominciò a rimarginarsi, ma lasciò una cicatrice che sfregiò per sempre l’armonia e la grazia neoelleniche riconquistate a Roma per il tempo breve della vita di Raffaello.