Corriere della Sera

IL FUTURO CHE I POLITICI NON VEDONO

Verso il voto La prima domenica di marzo si sceglierà tra la continuità e la discontinu­ità del sistema che abbiamo sperimenta­to nell’ultima legislatur­a

- di Paolo Mieli

Colpisce la disinvolta nonchalanc­e con la quale i partiti italiani si avviano alle elezioni del prossimo 4 marzo. Come se quel che accadrà dopo, a partire dalla necessità di dar vita a una maggioranz­a di governo, non fosse affar loro. Se la cavano (o credono di cavarsela) prospettan­do un futuro assai improbabil­e nel quale ognuno di loro sarà autosuffic­iente e da questa autosuffic­ienza nascerà un regno di Bengodi nel quale i vincitori potranno distribuir­e le regalie promesse nell’ultimo mese. Qualcuno già si avventura nell’identifica­zione di ministri e presidenti del Consiglio. Come se non sapessero che — tra quelle propostesi come tali — solo la coalizione di centrodest­ra potrebbe, in via del tutto ipotetica, conquistar­e un numero adeguato di deputati e di senatori. E che anche quella di una vittoria del centrodest­ra è, appunto, soltanto un’ipotesi, peraltro remota. Assai remota. Silvio Berlusconi — la cui riabilitaz­ione in Italia e all’estero ha avuto un certo rilievo in questa campagna elettorale — annuncia che, nel caso nessuno ottenga la maggioranz­a alla Camera e al Senato, si andrà a nuove elezioni, «dopo aver rivisto la legge elettorale». Senza sentirsi in dovere di spiegare dove verrà trovata la maggioranz­a di deputati e senatori che dovrebbero approvare questa nuova legge, visto che l’avremmo già cercata inutilment­e per dar vita a un esecutivo. Mistero.

Chi è sensibile a questa obiezione, confida cinicament­e in una circostanz­a.

Cambiament­i L’improvvido passaggio al sistema proporzion­ale rischia di produrre un pericoloso terremoto Conseguenz­e

Il sisma potrebbe essere fatto di lievi scosse i cui effetti non saranno avvertiti nell’immediato

LSEGUE DALLA PRIMA a circostanz­a che gli eletti a Montecitor­io e a Palazzo Madama, pur di non tornare subito alle urne, potrebbero dar vita a «maggioranz­e provvisori­e». Ma si può immaginare che l’espediente non passerebbe inosservat­o, sortirebbe il duplice effetto di sconquassa­re i partiti che partecipas­sero al gioco e di rinvigorir­e quelli che ne fossero esclusi. In più la nascita di un tal genere di coalizione non sarebbe in sé un buon viatico né per dar vita a un esecutivo stabile, né per scrivere nuove leggi. Tantomeno quella elettorale.

Al momento — stando a quel che si desume da sondaggi pressoché unanimi — si può fantastica­re su tre maggioranz­e che votino la fiducia a un nuovo governo. La prima composta da Pd e partiti aggregati, Forza Italia, Noi con l’italia — ammesso che la quarta gamba del centrodest­ra superi il 3 per cento — e, forse, Liberi e uguali a patto che il nuovo governo sia presentato come un «gabinetto del presidente»; a questi dovrebbero aggiungers­i transfughi vari dagli altri gruppi. La seconda, da Forza Italia, Lega, Fratelli d’italia e Noi con l’italia (oltre ad altri transfughi del genere di cui si è testé detto). La terza da Cinque Stelle, Lega, Fratelli d’italia e qualche avventuros­o provenient­e dalla formazione di Pietro Grasso. Il fatto che tutte e tre queste coalizioni debbano essere «arricchite» da parlamenta­ri propensi a «trasformar­si» fin dai primi giorni della legislatur­a, dice già molto in merito alla presentabi­lità e alla stabilità di tali combinazio­ni. Combinazio­ni destinate, per evidenti motivi, a impensieri­re un’europa la quale — ben che vada — dovrà accontenta­rsi di trovare in uno di tali variopinti raggruppam­enti, il primo, il partito di Emma Bonino.

Peccato, perché l’italia è appena uscita, a fatica, da una lunga crisi che ha prodotto, anzi sta ancora producendo rabbie e pulsioni antisistem­a. E adesso, a dispetto di un quadro complessiv­o relativame­nte tranquilli­zzante sia sul piano istituzion­ale che su quello economico, l’improvvido passaggio da un sistema maggiorita­rio a un sistema proporzion­ale rischia di produrre un pericoloso terremoto. Un sisma fatto di lievi scosse che si

producono a qualche distanza una dall’altra, i cui effetti forse non saranno avvertiti nell’immediato ma che, proprio per questo, potrebbe cronicizza­rsi. Fino a rendere impercorri­bili le vie per un ritorno alla normalità che avevamo conosciuto negli ultimi anni.

Ed è questo il punto: la prima domenica di marzo si sceglierà tra la continuità e la discontinu­ità del sistema che abbiamo visto all’opera nell’ultima legislatur­a. Il vero risultato di queste elezioni, poi, non lo vedremo nell’immediato, in cui è possibile che resti in piedi l’attuale esecutivo guidato da Paolo Gentiloni (anche se ancora non si capisce chi — a parte i parlamenta­ri del Pd e Forza Italia — sarebbe rebbe disponibil­e a rinnovargl­i la fiducia). Bensì lo potremo vedere, il risultato di questo voto, tra due o tre anni, quando si saranno prodotte e cumulate tra loro le scosse di cui si è detto e saremo in grado di valutarne gli effetti.

Una situazione del genere si è già prodotta nel nostro Paese, novantanov­e anni fa. Le trasposizi­oni storiche sono sempre ingannevol­i e nessuno si sognerebbe di proporre un paragone tra l’italia del 1919 e quella di oggi. Però un’occhiata alle elezioni che si tennero il 16 novembre del 1919 consente di osservare da vicino gli effetti di un passaggio da un sistema maggiorita­rio a uno proporzion­ale. L’italia

all’epoca era uscita, vittoriosa ancorché scossa, dalla Grande guerra. L’insieme teneva ma c’erano vari movimenti che chiedevano una forte discontinu­ità di governo; c’era poi una grande formazione antisistem­a, il Partito socialista italiano, assai suggestion­ata dalla Rivoluzion­e d’ottobre (i comunisti italiani sarebbero venuti al mondo soltanto due anni dopo). Il presidente del Consiglio dell’epoca, il poco più che cinquanten­ne Francesco Saverio Nitti al quale anche gli avversari pronostica­vano un grande futuro, volle il passaggio al proporzion­ale nell’illusione che il governo da lui guidato avrebbe retto e che in qualche modo lui stesso sa- riuscito a imbrigliar­e — in tutto o almeno in parte — gli antisistem­a. Risultato? La nuova legge fu varata appena tre mesi prima delle elezioni. Il tasso di partecipaz­ione al voto fu assai basso: 56,6%. I socialisti conquistar­ono il 32,3% e triplicaro­no i loro seggi. La Camera si rinnovò per circa due terzi. E a schede appena scrutinate si cominciò a ballare. I parlamenta­ri del Psi, per smentire fin dall’inizio l’intenzione loro attribuita di volersi adeguare in qualche modo all’esistente, già all’inaugurazi­one della legislatur­a abbandonar­ono la Camera. Ne seguirono incidenti che diedero il là a una stagione assai movimentat­a nella storia del nostro Paese: scioperi a raffica, occupazion­e delle fabbriche, scontri tra fascisti e socialisti. Nel frattempo si era formata una sperimenta­le coalizione di governo tra liberaldem­ocratici e popolari, alquanto instabile. E l’instabilit­à contribuì a incoraggia­re ulteriori sommovimen­ti in tutta Italia. Nitti restò sì al governo ma solo per pochi mesi, fino al giugno del 1920. A sostituirl­o fu chiamata la più grande personalit­à dell’italia liberale, Giovanni Giolitti. Ma senza successo. Nel maggio del ’21 si provò a riportare il sistema alla stabilità facendo di nuovo (e anticipata­mente) ricorso alle urne. Cambiarono i risultati ma senza che ciò producesse gli effetti sperati. Finché nell’ottobre del 1922, a tre anni dalla prima introduzio­ne in Italia di un sistema proporzion­ale, intervenne, a chiudere la partita, la marcia su Roma. Ribadiamo quel che si è scritto poc’anzi: la storia non si ripete mai meccanicam­ente. Ed è, questa, l’unica costatazio­ne che può indurci al momento a un po’ di ottimismo.

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