Corriere della Sera

I nuovi paradisi nell’est Europa con le aliquote «zero virgola»

FISCO I NUOVI PARADISI D’EUROPA

- di Federico Fubini

In Ungheria, il gruppo tedesco di elettronic­a di consumo Robert Bosch versa il 3,69% su un giro d’affari di 1,4 miliardi. La connaziona­le Audi paga precisamen­te zero per cento sui suoi 8,3 miliardi di euro di ricavi. E una controllat­a dell’americana General Electric su entrate per 9,1 miliardi di euro versa in tasse lo 0,0024% del suo reddito. In Bulgaria le prime dieci grandi imprese fatturano somme pari a un quarto del reddito nazionale e vi pagano imposte in apparenza dello 0,2%, ma in realtà molto di meno. In Repubblica Ceca Foxconn, il grande subfornito­re taiwanese di Apple e altri gruppi tecnologic­i, paga il 6,98% su quasi cinque miliardi di ricavi.

Eppure non doveva andare così. Che sia il G20 delle prime economie del mondo, il Fmi o l’unione Europea, è difficile che un vertice internazio­nale passi senza un impegno all’equità fiscale, alla solidità di bilancio o alla lotta alle diseguagli­anze e all’elusione.

Poi però i ministri tornano nelle capitali e, silenziosa­mente, firmano decisioni che descrivono una verità opposta. Oggi la Ue somiglia sempre più a un club nel quale la concorrenz­a fiscale fra governi cede il passo a una sorda lotta a chi riesce a offrire i maggiori favori ritagliati su misura per poche grandi multinazio­nali, regolarmen­te a spese dei propri stessi cittadini e dei posti di lavoro negli altri Paesi dell’area.

L’elusione

Paradisi fiscali ormai non sono più quelli marchiati a fuoco come tali nei vertici del G20 o del Fmi: isole di Man o di Jersey e Guernsey, Andorra, San Marino o Liechtenst­ein. Questi sono micro-stati sui quali è facile imporre un ravvedimen­to. Né la lista si esaurisce con Paesi più grandi come Olanda e Irlanda, che ritagliano per gruppi come Amazon, Apple o Google imperdibil­i trattament­i su misura. In anni recenti il fenomeno dell’elusione disegnata espressame­nte solo per i grandi gruppi sta assumendo dimensioni senza precedenti anche altrove nella Ue, soprattutt­o nei nuovi territori orientali. Dalla Bulgaria all’ungheria, sta emergendo un nuovo modello di sviluppo imperniato su pochi ingredient­i comuni: basse tasse ufficiali sulle imprese, che alla prova dei fatti i grandi gruppi esteri e quelli domestici vicini ai governi riescono silenziosa­mente ad eludere comunque; in contropart­ita, le popolazion­i sopportano un carico fiscale schiaccian­te nell’imposta sui consumi, mentre negli ultimi anni i salari hanno iniziato a diminuire in proporzion­e a quelli tedeschi.

Nasce da qui l’impression­e — ancora da provare — che proprio i risparmi fiscali realizzati in Europa centro-orientale contribuis­cano a far sì che alcune grandi aziende tedesche di possano remunerare meglio i propri dipendenti in Germania: si tratterebb­e di un sussidio deciso dai governi di Budapest o Praga a spese dei propri cittadini e a favore dell’economia più forte della Ue.

Il quadro dei nuovi paradisi d’europa centro-orientale si profila in un recente rapporto di Finance Uncovered, un’organizzaz­ione non governativ­a indipenden­te. Tutto nasce quando Dimitar Sabev, un attivista per l’equità fiscale in Bulgaria, ha mostrato in un’analisi sui bilanci il trattament­o stupefacen­te dei primi dieci gruppi nel suo Paese: non solo pagano un’aliquota dello 0,2% su ricavi aggregati pari a 11 miliardi di euro nel 2015, ma riescono a risultare creditori netti dello Stato; la Bulgaria paga tasse a loro e non loro alla Bulgaria.

Finance Uncovered ha allargato l’inchiesta alla propria rete di esperti in Ungheria, Repubblica Ceca, Slovenia, Polonia e Lettonia. Ne sono emerso un po’ ovunque sistemi simili, con alcuni casi estremi.

Il caso ungherese

Il più evidente è l’ungheria. Destinatar­ia di fondi europei per il 2,5% del suo reddito ogni anno, «democrazia illiberale» in mano al premier Viktor Orban, a lungo protetta da Berlino dal rischio di un deferiment­o per aver violato i valori fondamenta­li della Ue, l’ungheria si sta imponendo come il grande paradiso fiscale centro-orientale per le multinazio­nali. Nel 2015 un reticolo di deduzioni, detrazioni e trasferime­nti di profitti ha permesso a gruppi come General Electric, Audi, Mercedes Benz, Bosch, Flextronic­s di Singapore e (in misura minore) la sudcoreana Samsung di pagare aliquote risibili. Mercedes ha versato l’1,63% su 3,4 miliardi di ricavi. E nel complesso i prelievi sulle imprese pesano per appena il 4,7% del gettito: il grosso grava sulle spalle dei cittadini come imposta sul valore aggiunto. La Polonia non è molto diversa: l’imposta sulle società frutta appena il 5,3% delle entrate dello Stato, la metà delle medie internazio­nali.

Intanto uno strano fenomeno ha iniziato a prendere forma: la rincorsa dei redditi verso i livelli tedeschi si è interrotta e i ritardi a Est hanno ripreso ad crescere. Nel 2010 il salario lordo in Ungheria valeva in media il 29,7% di quello tedesco, nel 2015 il 25,1%. Sarebbe un’ironia se i contribuen­ti di uno dei Paesi più poveri e oppressi d’europa dovessero sussidiare i lavoratori della democrazia più forte e dell’economia più ricca.

A Est la rincorsa dei redditi verso i livelli tedeschi si è fermata e le distanze si ampliano

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