Corriere della Sera

I dubbi della Bce sui costi a lungo termine della riforma Usa

- Enrico Marro

Nell’ultimo Bollettino della Banca centrale europea c’è un capitolo sulla riforma delle tasse del presidente americano Donald Trump entrata in vigore il primo gennaio scorso che vale la pena di sintetizza­re, anche per fare chiarezza rispetto alle facili strumental­izzazioni della riforma cui si assiste nella campagna elettorale italiana. Il primo punto sottolinea­to dalla Bce riguarda il taglio delle tasse per le imprese e mette in chiaro un dato: negli Usa le aziende pagavano più tasse che in Europa: «L’onere fiscale sui redditi delle società statuniten­si si ridurrà significat­ivamente (dal 35 al 21%, ndr) raggiungen­do un livello prossimo a quello esistente in diverse economie dell’area euro». Un grafico mostra che Germania, Italia e Spagna almeno dal 2008 hanno un livello di tassazione sulle imprese inferiore di una decina di punti rispetto a quello degli Stati Uniti. Quindi Trump, tagliando le tasse alle imprese, le ha sempliceme­nte allineate al prelievo che da anni c’è nei maggiori Paesi Ue, Italia compresa. Secondo punto. Il taglio delle tasse Usa, dice il Bollettino della Bce, vale, in termini di minor gettito, lo 0,7% del Pil americano l’anno in media per i prossimi dieci anni. E questo consideran­do tutta la riforma: non solo i tagli alle imposte sulle imprese ma anche quelli sulle persone fisiche. Se per un attimo volessimo parlare dell’italia (la Bce non lo fa) lo 0,7% del Pil fa circa 12 miliardi di euro l’anno. È appena il caso di ricordare che le varie proposte di Flat tax (aliquota unica Irpef al 23%) causerebbe­ro, secondo lo stesso Silvio Berlusconi, un ammanco di 30 miliardi il primo anno che poi il leader di Forza Italia conta di recuperare grazie alla crescita dell’economia.

Ma cosa prevede la Bce circa gli effetti della riforma fiscale Trump sull’economia? Si stima che essa «comporterà un aumento della domanda interna degli Stati Uniti e un incremento del Pil reale nel breve termine». Insomma, il taglio delle tasse spingerà i consumi e, per questa via, la crescita. Tuttavia, avverte Francofort­e, «gli effetti nel lungo termine sono molto più incerti. Diverse istituzion­i hanno svolto simulazion­i» ed «è emerso che nei prossimi tre anni la riforma porterà un moderato incremento del Pil reale degli Stati Uniti, compreso tra lo 0,5 e l’1,3%». Ma sul mediolungo periodo, «supponendo che la riforma sia finanziata in deficit, il crescente disavanzo di bilancio porrebbe in ultima istanza indurre un incremento dei tassi di interesse a lungo termine, aumentando in tal modo il costo del capitale e controbila­nciando alcuni degli effetti positivi dal lato dell’offerta». Che è un po’ quello che secondo molti analisti stanno già scontando i mercati finanziari. E parliamo, è bene ricordarlo, di un Paese, gli Stati Uniti, con un debito pubblico al 104% del Pil mentre l’italia sta al 132%. E quindi dovrebbe essere più prudente.

Infine nel rapporto si osserva che «la riduzione delle imposte sulle imprese accresce l’attrattivi­tà fiscale degli Usa rispetto ad altri Paesi, fattore che influenzer­à gli incentivi a investire delle società». Più in generale, «la riforma rischia di intensific­are la concorrenz­a fiscale a livello mondiale, con una conseguent­e possibile erosione della base imponibile nei Paesi della Ue». Che, di nuovo, significa più deficit e più debito, se allo stesso tempo non si tagliano le spese. Ma di questo nessuno parla nella nostra campagna elettorale.

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