DIETRO IL VELO IL QUADRO PRENDE VITA
Il saggio di Flaminio Gualdoni
La stagione d’oro dei tableaux vivants («quadri viventi»: mimare fisicamente le pose dei dipinti famosi, riproducendole fedelmente) è il Secondo Impero francese, su cui dominano, più che lo stesso Napoleone III, l’imperatrice Eugenia («L’aquila sposa una cocotte!», esclama Victor Hugo per il matrimonio regale) e la contessa di Castiglione («Lord Hertford le ha dato un milione per dormire con lei», narra un memorialista). I tableaux sono il divertimento preferito del tempo, ma la loro origine risale al Medioevo, come racconta ora Corpo delle immagini, immagini del corpo (Johan & Levi, pagine 192, 23), un sapido e documentatissimo libro di Flaminio Gualdoni. Il primo esempio? Nel 1233, a Greccio, col Presepe di san Francesco.
Poi la storia diventa laica: un mélange di pittura e teatro, ma soprattutto l’amore per l’arte e prosaici desideri carnali (l’esibizione della nudità, consentita nell’arte, non lo è nella vita vera). Nel 1787, durante il Viaggio in Italia Goethe assiste alle esibizioni della moglie dell’ambasciatore inglese a Napoli, lord Hamilton, che mima le pose e gli abbigliamenti delle pitture e delle statue antiche collezionate dal marito. Emma, adesso lady, aveva già sperimentato le sue «pose plastiche» a Londra, quando, modella squattrinata, si esibiva nuda in performance private per clienti danarosi e vogliosi. Da qui, partono il filone «per bene» dei tableaux (passatempo aristocratico e borghese talmente diffuso da far nascere una vera e propria messe di manuali con tutte le istruzioni del caso) e quello sulfureo degli spettacoli di varietà, i quali dai primi dell’ottocento giocano a rimpiattino con il comune senso del pudore. Anche le leggi più severe, infatti, salvaguardano la nudità «artistica»: nel caso, ad esempio, che la persona sia immobile, oppure che si esibisca in una cornice «culturale» come avviene negli spettacoli itineranti dell’impresario Keller, che nel 1847 fa serate anche al Carcano di Milano portandovi i rifacimenti delle Tre Grazie di Canova e del Giudizio di Paride di Rubens.
Per qualche decennio, il velo delle calzamaglie color carne conferisce ai corpi un’apparente nudità, al riparo dalla censura. Sono così sottili e quasi invisibili da essere sostituiti, talvolta, da fini veli di tulle frapposti tra gli spettatori e le attrici in déshabillé. In un celebre processo per oscenità del 1908, si dibatte se sia più lascivo che l’interprete sia «rasata alle ascelle e al pube».
Tant’è. Con le avanguardie storiche la voga dei tableaux sembrerebbe archiviata definitivamente; non è così. Motivo? L’essere popolare — al di fuori di pretese culturali «alte» — e non legata alla sola disciplina pittorica e scultorea. Se Marinetti bolla come anacronistiche le «ondulazioni di cosce» a Montmartre, dei tableaux all’antica si appropriano Isadora Duncan, i Balletti russi di Diaghilev, Duchamp che rifà dal vivo con l’amica modella Bronia Perlmutter Adamo ed Eva di Cranach, Dalí che monta trompe-l’oeil complessi e visionari fatti di corpi di modelle. E così via.
Dal secondo dopoguerra in poi gli esempi si moltiplicano in più ambiti: ne La ricotta (1963) ci sono le riproduzioni viventi di Pasolini dalle Deposizioni di Pontormo e Rosso Fiorentino; nel teatro, prima delle scene immobili di Bob Wilson, c’è l’avanguardia di Kantor e Grotowski; nelle arti plastiche, ecco Luigi Ontani, Gilbert & George e Cindy Sherman.
E oggi? Nel Viaggio a Reims rossiniano, il regista Damiano Michieletto ha concepito il finale come un quadro in scena: gli interpreti danno vita al dipinto (1827) di Gérard che raffigura l’incoronazione di Carlo X, per cui l’opera musicale venne scritta.