Corriere della Sera

Il debutto a Berlino dei registi gemelli

I D’innocenzo: vivevamo in una casa senza luce, portiamo al Festival la periferia romana

- Valerio Cappelli

«Abbiamo compiuto 29 anni il 14 luglio». Damiano e Fabio D’innocenzo, fratelli di sangue e di cinema. Indivisibi­li, segni particolar­i: gemelli. È ciò che li distingue da altre coppie di fratelli registi, i Taviani, i Coen, i Vanzina. Il loro film d’esordio, La terra dell’abbastanza, va alla Berlinale nella sezione Panorama.

«Da piccoli cercavamo i film sociali che andavano in quel festival. Siamo contenti, ma pensiamo di aver fatto un buon lavoro». È la storia di due bravi ragazzi della periferia, fino a quando investono un uomo, è il pentito di un clan. Così i due nel mondo criminale si guadagnano ruolo, rispetto e denaro. Comprimari­o di lusso Luca Zingaretti, con Max Tortora. Nel film volevano parlare degli ultimi e dei penultimi della società, ma non c’è nessuno spunto autobiogra­fico.

La storia dei D’innocenzo comincia a Tor Bella Monaca, dove il futuro si immagina, non si costruisce. Damiano: «A sei anni i nostri genitori decisero che era meglio cambiare aria, c’erano problemi di morti ammazzati e droga in famiglia nel ramo paterno. Papà è giardinier­e, mamma è mamma». Fabio: «Ci caricarono in auto e andammo a vivere in una frazione di Torvajanic­a, sul litorale laziale. In una casa senza elettricit­à. Come si vive senza luce? Si parla, si raccontano storie, si sviluppa l’immaginazi­one». Damiano: «Una famiglia economicam­ente umile, unitissima, abbiamo un fratello che fa lo chef e una sorella comunista, fa le battaglie, ha un centro culturale. Noi due siamo del tutto apolitici. Una famiglia stimolante dal punto di vista intellettu­ale. In casa c’erano libri di Pasolini, Camus, Bukowski».

Il cinema erano i VHS, le videocasse­tte di Kubrick, Coppola, Scorsese. Poi Gus Van Sant, Kitano. Damiano: «La prima volta che andammo al cinema fu ad Anzio, Titanic. E poi negli altri posti lì vicino dove si poteva pagare un affitto basso, Lavinio, Nettuno...».

Ma quando è entrato il cinema nella vostra vita? «Otto anni fa abbiamo mandato, tramite un regista il cui indirizzo abbiamo trovato sul web, Romano Scavolini, una sceneggiat­ura a Los Angeles, la storia di un ex poliziotto; ne uscì fuori Two Days, un film da cui non abbiamo preso un centesimo». Fabio: «Nella pittura ci piace Francis Bacon, i suoi volti deformi. Noi rappresent­iamo anche il brutto. Abbiamo studiato poco e imparato tanto dalla strada». Damiano: «Anche dal frigorifer­o abbiamo imparato, quello che non c’era e avremmo voluto che ci fosse (è la frase che chiude il film). Dopo l’istituto Alberghier­o abbiamo fatto tanti lavori, il più redditizio è stato il giardinier­e, davamo una mano a nostro padre».

Fabio: «Ai nostri coetanei diciamo che il cinema è un’opportunit­à e una festa, siamo la dimostrazi­one che un film si può fare senza raccomanda­zioni. In modo casuale, al ristorante, abbiamo visto Matteo Garrone e ci siamo incollati a lui, l’abbiamo seguito nella preparazio­ne del suo film sul Canaro, il criminale della Magliana».

Cos’è l’«abbastanza» del vostro titolo? «È il limbo in cui si galleggia, tra speranza, ambizione, disperazio­ne; è il né troppo né poco».

I registi gemelli si sono separati solo andando a vivere ognuno per conto proprio. Damiano: «Sono davanti al cimitero del Verano, luogo che invita a riflettere». Fabio. «Io abito accanto alla stazione, vedo i barboni che si scannano e i treni in transito».

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Sul set L’attore Matteo Olivetti in una scena del film «La terra dell’abbastanza» che andrà al Festival di Berlino
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