Corriere della Sera

LA SPIRALE NEGATIVA DA EVITARE

- Di Lucrezia Reichlin

Assumiamo, irrealisti­camente, uno scenario benevolo: una coalizione stabile e riformista nella prossima legislatur­a. Quali dovrebbero essere le priorità di questo ipotetico governo? Oltre all’ordinaria amministra­zione e al rispetto della stabilità dei conti pubblici, un governo capace di mettere in campo iniziative con un orizzonte di medio e lungo periodo dovrebbe affrontare il problema numero uno dell’italia: la produttivi­tà. Dalla metà degli anni Novanta — da ben più di vent’anni — la crescita della produttivi­tà in Italia è rallentata non solo rispetto al passato, ma anche rispetto agli altri Paesi europei. Dalla produttivi­tà dipende la crescita di lungo periodo e quindi il reddito presente e futuro dei cittadini, la capacità di ridurre il debito pubblico, la competitiv­ità internazio­nale. Capire il motivo di questo declino storico che ci impoverisc­e tutti e trovare il modo in cui iniziativa pubblica e privata interagisc­ano in modo virtuoso per invertirlo, dovrebbe essere il compito numero uno, l’urgenza di una agenda nazionale. Molte cose già si sanno. Ne elenco alcune. Il rallentame­nto della produttivi­tà è legato alla scarsa capacità di innovazion­e tecnologic­a ed ha toccato sia i servizi sia il settore manifattur­iero, ma non tutte le imprese. Il sistema produttivo è infatti sempre più polarizzat­o con alcune — poche — imprese innovative e competitiv­e ed altre — molte — inefficien­ti.

Il successo è legato alla dimensione e alla internazio­nalizzazio­ne, caratteris­tiche correlate. Sappiamo anche che l’italia è indietro nella formazione del capitale umano, con una scolarizza­zione bassa se comparata ad altri Paesi europei, alto abbandono scolastico e bassa graduatori­a nei test internazio­nali di abilità. Altra caratteris­tica italiana è una scarsa efficienza delle pratiche managerial­i, fenomeno che spesso si lega alla pratica diffusa di selezionam­ento dei manager all’interno della famiglia invece che attraverso processi competitiv­i basati su pool più ampi di talenti. Questi non sono fenomeni indipenden­ti tra loro, ma concause. Investire nella propria formazione non ha molto senso se la domanda di lavoro delle nostre imprese non premia la specializz­azione e l’istruzione alta. Chi è ambizioso e può farlo, parte all’estero sia per studiare sia per trovare lavoro più interessan­te e meglio retribuito. Un ingegnere laureato in una ottima università come il Politecnic­o di Torino, che non ha nulla da invidiare a molti atenei europei, guadagna, al suo primo impiego, un terzo del suo collega tedesco o inglese. Il problema quindi non è solo l’offerta educativa, ma anche la domanda, la capacità, cioè, delle nostre imprese di valorizzar­e quelle competenze necessarie all’innovazion­e. Questo crea una spirale negativa in cui l’italia si concentra sempre più su attività a basso valore aggiunto.

Ci sono tante altre cose che non vanno: la giustizia, l’inefficien­za dell’amministra­zione pubblica, il fisco e la lista dei lamenti può allungarsi ancora, ma è chiaro che nessuna di queste singole cause può spiegare da sola il declino degli ultimi venticinqu­e anni e soprattutt­o il perché sia iniziato proprio negli anni Novanta. In quegli anni sono cominciate ovunque nelle economie avanzate grandi processi di cambiament­o produttivo legati alle nuove tecnologie dell’informazio­ne

e della comunicazi­one. Queste ultime premiano la flessibili­tà organizzat­iva e necessitan­o di investimen­ti in beni immaterial­i come le invenzioni, i diritti, i brevetti. Chi non è saltato su questo carro è stato ulteriorme­nte penalizzat­o dalla competizio­ne internazio­nale in anni in cui la globalizza­zione ha accelerato il suo corso. In Europa il mercato unico ha dato enorme opportunit­à aprendo una grande area di libero scambio ma ha anche accelerato la competizio­ne e premiato i più forti.

Un governo ha due modi di incidere. Primo, investendo sulla qualità del sistema educativo, grande assente nei programmi elettorali. Secondo, formulando un programma comprensiv­o che favorisca l’adozione delle nuove tecnologie basato su incentivi, azione regolament­are ed infrastrut­ture. Su questo il governo uscente si è cominciato a

muovere con la cosiddetta «industria 4.0». Bisogna continuare a monitorare e perfeziona­re queste iniziative. Molto di più si può fare anche a livello europeo completand­o il mercato unico e alimentand­o un programma di investimen­ti.

Ma non scordiamoc­i che le resistenze sono profonde e anche in parte giustifica­te. Gli anni Novanta hanno portato a grandi trasformaz­ioni, ma ciò che oggi sta accadendo nei Paesi più innovativi con l’automazion­e e la robotica è potenzialm­ente devastante. In Germania, come negli Stati Uniti, il risultato di un processo tecnologic­o che sostituisc­e macchine a lavoro, combinato con profitti quasi monopolist­ici delle imprese alla frontiera e all’indebolime­nto oggettivo della capacità contrattua­le di lavoratori sempre più fragili, ha portato ad un declino tendenzial­e della quota del Pil che va al lavoro. Questa è l’altra faccia del successo. In Italia, avviene l’inverso. Poiché la quota del lavoro è aumentata. Tuttavia ciò non è dovuto al fatto che i lavoratori siano pagati meglio che in Germania, ma da salari che crescono più della produttivi­tà. Poiché quest’ultima è bassa, i salari sono anch’essi bassi e così anche i profitti.

Questo governo stabile e lungimiran­te della mia fantasia dovrebbe quindi anche riflettere su come proteggere chi perde dal progresso. Questo è il tema che dominerà la politica dei Paesi avanzati nei prossimi decenni. L’italia — i politici e chi li elegge — deve decidere come affrontare le grandi trasformaz­ioni tecnologic­he che stanno cambiando il mondo. Rinunciare al progresso non è la risposta, perché questo rende tutti più poveri.

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