Funerali in maschera per Bea Il padre: 8 anni bellissimi e brevi
Torino, l’incredulità dopo la prima diagnosi e la vita tutti i giorni fino all’ultima crisi
C’erano tutti i supereroi dei fumetti a salutarla nella chiesa del Santo Volto di Torino: il funerale di Bea, la bambina di otto anni che era affetta da una malattia che aveva trasformato il suo corpo in un’armatura rigidissima. Il padre: «Con Bea abbiamo riso anche della malattia».
«Cosa volete che vi dica. Mi viene in mente solo che sono stati otto anni meravigliosi e brevi».
Un appartamento al decimo piano di un palazzo popolare nella periferia Nord di Torino. La vista dal balcone è sulle insegne luminose del supermercato Il Gigante. Alessandro Naso toglie dalla spalliera di una sedia il piumino argento di Bea. Per fare strada agli ospiti sposta la sua carrozzina. In mezzo al tavolo c’è ancora la sua colazione di lunedì, l’ultimo giorno a casa. Il budino alla vaniglia, lo voleva solo di una certa marca. La lattina di Pepsi che consumava un sorso al giorno.
«Aveva pochi giorni quando ci accorgemmo che c’era qualcosa che non andava. Le mani. Erano chiuse a pugno. Non riusciva ad aprirle».
La prima diagnosi?
«Quando aveva due mesi. Era il 24 agosto 2009, eravamo appena tornati da Rimini. Il pediatra di turno era convinto che non fosse un problema neurologico. Noi pensammo che fosse un medico da due soldi, con rispetto parlando».
Invece ci aveva visto giusto?
«Proprio così. Pochi giorni dopo, mentre mia moglie la vestiva per portarla al nido, cominciò a urlare dal dolore. Si era rotta un braccio».
A chi vi rivolgeste?
«La portammo all’ospedale Martini, in ortopedia. Le fecero radiografia e Tac. Ricordo un tecnico che esce dal laboratorio e mostra le lastre al primario. “Cosa c... è questo?” gli sussurrò a bassa voce. Non aveva mai visto niente di simile».
Cosa vi dissero?
«C’erano delle strane calcificazioni sulle articolazioni di Bea, e stavano avvolgendo anche i muscoli del corpo. I dottori non sapevano cosa fosse».
Quando capiste che Bea aveva una malattia unica?
«Nel 2011 andammo a Parma, dove c’era un convegno dei migliori genetisti mondiali. Un professorone di Filadelfia spiegò che la casistica era di una ogni sei miliardi, ovvero il numero degli abitanti della Terra».
E voi?
«Mia moglie Stefania aveva una cartoleria a Collegno e decise di chiuderla. La bimba aveva appena avuto la sua prima crisi. Il torace calcificato non la faceva più respirare. Comprammo le bombole di ossigeno. Le ultime sono lì dietro, nel ripostiglio».
Come reagiscono due genitori a una notizia così tremenda?
«Certo, ci chiedemmo cosa avevamo fatto di male nella vita. Ma l’autocompatimento durò poco. Avevamo un lavoro da fare. Volevamo che Bea vivesse bene il tempo che le restava».
Ci siete riusciti?
«Ci siamo divertiti tanto. L’abbiamo portata quattro volte a Eurodisney, altre due sul bruco a vela di Gardaland. Usciva ogni giorno. La crisi che me l’ha portata via l’ha avuta lunedì a casa dei miei genitori. Mentre stava giocando con la sua cuginetta».
Con la scuola come avete fatto?
«Dormiva con noi. La vestivamo sul divano davanti alla porta. La portavamo fino in classe sulla sua carrozzina speciale. All’ultimo colloquio le maestre mi hanno detto che era una delle migliori. A casa le dissi che di sicuro non aveva preso da me...».
Scherzavate?
«Aveva un gran senso dell’umorismo. “Papà, se non mi trovi più significa che sono andata a sgranchirmi le gambe”. Capisce? Una bambina che muoveva solo gli occhi».
Vi avevano anche detto che sarebbe venuto quel giorno?
«Fu nel 2013. Il compito toccò al primario del Gaslini di Genova, l’ultimo ospedale al quale ci siamo rivolti. “Dovete prendere in considerazione la possibilità che Bea non raggiunga l’età adulta”».
Gli altri com’erano con lei?
«Ho imparato che la gente è meno peggio di quel che si crede. Certo, ogni tanto incrociava sguardi di pena».
Se ne accorgeva?
«Le dava fastidio. Bea era sveglia. Un giorno al supermercato ha apostrofato un uomo. “Cos’hai da guardare?” gli disse. I bambini sono meno morbosi. Accettano le cose per come sono».
La pagina Facebook «Il mondo di Bea» vi ha aiutato?
«Credo sia stato un modo mio e di mia moglie per farci forza. Per sentirci meno soli, forse. A Bea piaceva. Le facevamo i video. Era vanitosa, come tutte le bambine. Profumo, smalto alle unghie, tinta ai capelli. Ci teneva».
Arrivavano anche messaggi di critica?
«Sui social la gente pensa sempre che tu sia a disposizione, pretende risposte e riconoscimenti immediati e se non li ottiene si arrabbia. Noi facevamo il possibile, ma avevamo vite complicate».
La notorietà generava anche invidie?
«Qualche messaggio sul look di mia moglie quando andava in televisione se lo sarebbero potuti risparmiare. La realtà era un’altra».
Quando capì che avrebbe perso anche lei?
«Natale 2016. Emicranie e dolori alla cervicale. Siccome aveva superato un tumore al seno, facemmo un controllo. Metastasi ovunque. Se n’è andata a settembre».
A Bea cosa ha detto?
«La verità. Aveva realizzato fin da subito che mamma era molto grave».
Come sono stati gli ultimi giorni di sua figlia?
«Faceva sempre più fatica a respirare. E mangiava poco, il segno che stava per arrivare una crisi. Lunedì mattina l’ho presa in braccio, non riusciva a stare sulle gambe. Ci abbiamo scherzato sopra. Quando è stata male a casa dei nonni, sono arrivato dal lavoro che stava perdendo conoscenza».
Lei cosa farà?
«Adesso voglio solo ricordare. Ho 36 anni, faccio l’operaio all’alenia di Caselle, ho avuto una famiglia bellissima. Così va la vita, così è andata la mia».
Gli scherzi
«Mi diceva: se non mi trovi sono andata a sgranchirmi le gambe Aveva tanta ironia»
Le dava fastidio quando incrociava degli sguardi di pena, un giorno al supermercato apostrofò un uomo: «Cos’hai da guardare?» I bambini sono meno morbosi dei grandi
La pagina Facebook «Ci faceva sentire tutti meno soli: a Bea poi piaceva tanto, lei era anche un po’ vanitosa»