Corriere della Sera

Ma i politici ne parlano

Dalla formazione agli investimen­ti stranieri, nessuno affronta i dossier su cui l’italia è indietro

- di Marco Galluzzo

P rendiamo il Bilancio dello Stato: «Non ha responsabi­li, è diviso in 180 programmi, come in Francia, solo che a Parigi c’è un responsabi­le per ogni settore, da noi no. E c’è da aggiungere che in un Paese con il nostro debito pubblico non abbiamo più economisti, persino l’ufficio economico di Palazzo Chigi è stato smantellat­o», è la sintesi di Andrea Montanino, 49 anni, ex Fmi, da un mese capo ufficio studi di Confindust­ria.

Prendiamo il turismo, interconne­sso con il tema del Sud, altro tema scomparso dai radar della campagna elettorale: «Abbiamo il petrolio in casa, ma persino il Montenegro ha piano strategico nazionale, noi no. E la Spagna ha 20 milioni di turisti più dell’italia», è la sintesi di Dante Roscini, 59 anni, professore di Economia internazio­nale ad Harvard.

I temi assenti

Mancano due settimane al voto ma i temi della campagna elettorale sono sempre quelli: tasse e immigrati. Scorrendo i programmi dei partiti restano assenti dei veri e propri tabù: gap accumulati negli anni, descritti con dovizia di numeri nella classifich­e degli organismi internazio­nali, ma ciclicamen­te dimenticat­i. Dalla giustizia alla corruzione, dall’efficienza della Pa al Sud.

Il più grande tabù è forse il debito pubblico: «Quasi tutte le promesse sono senza coperture — dice Alessandro Leipold, nuovo membro italiano del Fmi, al posto di Carlo Cottarelli —, non esiste una formula o un programma per una crescita sostenibil­e, e rischia di andare persa l’occasione offerta dalla fase congiuntur­ale. Una novità incoraggia­nte è almeno la comparsa nel dibattito di una quantifica­zione dei costi dei programmi».

Ma i tabù sono tanti, e iniziano con il concetto di legalità, con quello che gli anglosasso­ni definiscon­o Rule of law, traducibil­e con efficacia del sistema statale e giuridico, o con il concetto di certezza delle regole. In Europa siamo in fondo alla classifica: «Abbiamo avuto il Codice di Giustinian­o e inventato il concetto di certezza del diritto, ma siamo diventati il Paese del bianco e del nero, dei ricorsi, dell’interpreta­zione continua. Uno stato delle cose che induce gli stranieri a non fare investimen­ti diretti in Italia, se non a particolar­i condizioni. Persino la Spagna è più attrattiva e ha un’amministra­zione centrale più seria», è la sintesi di Francesco Ago, senior partner dello studio Chiomenti, 280 avvocati, sedi in tutto il mondo, da Roma a Pechino, da Londra a New York.

Chiomenti ha un osservator­io particolar­e, tratta ogni giorno con aziende estere che vogliono investire in Italia, ma che prima chiedono garanzie. La sintesi è desolante: «Prendiamo il Mezzogiorn­o: è un tema scomparso, la riforma del federalism­o ha aumentato i centri di costo e la confusione. E in questo quadro il gap ulteriore è l’efficienza complessiv­a del sistema, non si capisce nemmeno chi debba fare le riforme: al Tesoro non c’è più un consiglio degli esperti. Siamo anche diventati il Paese dove i pregiudica­ti non vanno in galera. Il mercato asfittico E se nelle classifich­e internazio­nali siamo appaiati a Cuba per il rischio di corruzione, Ago tocca un altro tasto dolente, quello del rapporto fra il funzioname­nto del sistema legale e gli investimen­ti stranieri, che si accompagna­no ai dati sul nostro sistema finanziari­o. Roscini lo declina così: «Il mercato italiano è asfittico, manca il capitale di rischio, gli investimen­ti esteri da zero, i cosiddetti green field investment­s: i francesi comprano la moda, gli americani i treni, ma non esiste un piano per fare crescere le nostre aziende, per renderle libere dalle banche e dipendenti dal mercato». Eppure le policy virtuose «esistono — continua Roscini — e smuovono l’intero Paese, basti pensare al Jobs act e al piano Industria 4.0, le riforme producono risultati», ma tutto il dibattito è al momento imperniato solo sulla spesa pubblica. «Il vero tabù — continua Montanini — è parlare di efficienza del settore pubblico, ovvero di scuola, università, giustizia, ministeri, tutta l’amministra­zione dello Stato. Spending review non è solo tagliare: non ci sono più giovani nelle nostre amministra­zioni, almeno di alta formazione, non si assumono più economisti, ingegneri, geologi, agronomi. La Corte dei conti inglese ha un budget che è una variabile dei risparmi che fa ottenere allo Stato, da noi la Corte dei conti è diventato un deterrente, ci si preoccupa solo del danno erariale possibile, ma ha perso il core business, non più ha la funzione di rendere più efficiente la spesa pubblica».

La povertà

Altro tabù è proprio la formazione, un sistema universita­rio frammentat­o in cui il primo ateneo italiano compare nelle classifich­e internazio­nali al 180° posto. E fra la formazione e il grande tema della diseguagli­anza e della povertà il passo è breve. Enrico Giovannini, ex ministro ed ex presidente dell’istat, oggi in un think tank che si occupa proprio di questi temi, la mette così: «Abbiamo un record di 4,7 milioni di poveri. Una volta vivevano sotto la soglia gli anziani, ora sono i giovani. In Italia anche i poveri si impoverisc­ono, e nessuna proposta, dalla flat tax al reddito di dignità, affronta le cause di questa dinamica».

Il turismo Roscini, economista ad Harvard: sul turismo persino il Montenegro ha un piano strategico

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