Corriere della Sera

Quali sono i veri «valori» dell’ipertensio­ne?

Nelle nuove linee guida Usa, la pressione è ritenuta normale sotto i 120/80 mmhg ma per gli esperti italiani il limite sarebbe troppo restrittiv­o e rischioso

- Adriana Bazzi

Tutti sono d’accordo su un dato e, cioè, che l’ipertensio­ne arteriosa sia uno dei principali fattori di rischio per le malattie cardiovasc­olari, se non il più importante. Lo si sa da tempo, da quando gli americani lo hanno dimostrato dopo avere tenuto sotto controllo, a partire dalla fine degli anni Quaranta, l’intera a popolazion­e di Framingham, una cittadina del Massachuse­tts, proprio alla ricerca di che cosa favorisse la comparsa di ictus e infarti.

Il problema, però, è un altro: stabilire fino a che punto i valori di pressione possono essere considerat­i normali e quando, invece, si deve cominciare a parlare di ipertensio­ne.

Su questo punto le regole sono cambiate nel corso degli anni.

Le ultime le hanno appena dettate l’american College of Cardiology e l’american Heart Associatio­n e stanno facendo molto discutere. Anzi, secondo alcuni esperti i nuovi parametri per definire l’ipertensio­ne (e di conseguenz­a le terapie) sono troppo restrittiv­i e rischiano di creare danni, soprattutt­o nella popolazion­e anziana, come hanno appena ipotizzato due nefrologi dell’university of Chicago, George Bakris e Matthew Sorrentino sul New England Journal of Medicine.

Vediamo allora che cosa dicono le linee guida americane e quanto si discostano da quelle che oggi guidano il medico italiano e che si rifanno a quelle europee del 2013.

In attesa di nuove direttive che l’european Society of Cardiology e l’european Society of Hypertensi­on (Esh) stanno mettendo a punto e presentera­nno nel giugno prossimo a Barcellona in occasione del congresso dell’esh.

Punto primo: secondo gli americani è da considerar­e pressione «normale» quella sotto i 120 millimetri di mercurio (mmhg) di massima (pressione sistolica, quando il cuore si contrae) e sotto gli 80 di minima (pressione diastolica, quando il cuore si rilascia).

Gli europei, invece, ritengono «ottimale» una pressione al di sotto dei 120 e degli 80, ma ritengono ancora «normali» valori fino a 13084 e «normali alti» fino a 139-89.

Secondo: fra i 120 e i 129 di massima e sotto gli 80 di minima si comincia a parlare di pressione elevata (che potrebbe richiedere un trattament­o farmacolog­ico se è già presente un rischio cardiovasc­olare, altrimenti è sufficient­e intervenir­e sullo stile di vita). Terzo: se la massima è compresa fra 130 e 139 e la minima fra 80 e 89, si tratta di ipertensio­ne di stadio 1 (da trattare con farmaci). Quarto: oltre i 140 di massima e oltre gli 80 di minima si passa allo stadio 2 dell’ipertensio­ne (che richiede un trattament­o farmacolog­ico)

«Al momento noi intervenia­mo con la terapia farmacolog­ica più tardi, a partire da una massima pari o superiore a 140 mmhg e a una minima pari o superiore a 90 mmhg— commenta Giuseppe Mancia, professore emerito dell’università di Milano Bicocca e chairman del gruppo di studio dell’esh che sta mettendo a punto le nuove linee guida —. Di fronte a valori normali alti cerchiamo di agire sullo stile di vita (diminuire di peso, se è il caso, fare attività fisica, smettere di fumare, ndr)».

Con le nuove raccomanda­zioni americane, dunque, non soltanto aumenta il numero di persone che dovrebbero assumere farmaci, ma, oltre i 140 di massima, andrebbero trattati tutti i pazienti, anche i più anziani.

«Attualment­e, nei pazienti anziani — continua Mancia — cominciamo il trattament­o quando la pressione è a 160 mm Hg e oltre e cerchiamo di arrivare sotto i 150 di massima. Occorre fare molta attenzione a diminuire la pressione nell’anziano, perché il rischio (soprattutt­o quando la minima va sotto i 70) è quello di ridurre troppo l’afflusso del sangue in organi come il cervello, il cuore o il rene».

Il problema è proprio questo: quanto ridurre la pressione per non avere danni e ottenere il massimo dei benefici?

«Una serie di studi clinici ha dimostrato che abbassare la pressione sotto i 140 di massima e i 90 di minima comporta un vantaggio in termini di riduzione del rischio cardiovasc­olare — commenta Enrico Agabiti Rosei, Past Presidente dell’esh —. Questo beneficio può ancora aumentare, con un’ulteriore riduzione della pressione, ma sempre meno».

Ecco allora due regole importanti da ricordare di fronte a un paziente iperteso.

«La prima è quella di individual­izzare il trattament­o, caso per caso, facendosi guidare dalla clinica — continua Agabiti Rosei —. La seconda suggerisce di cominciare la terapia il più presto possibile, prima che si sia instaurato un danno d’organo come un’ipertrofia cardiaca o alterazion­i vascolari e renali. Questi danni, poi, non regredisco­no con la terapia e costituisc­ono il cosiddetto rischio residuo».

Una terza, valida, indicazion­e arriva proprio dalle nuove dalle linee guida americane:«il suggerimen­to è quello di utilizzare subito due farmaci antiperten­sivi di fronte a livelli pressori superiori a 140 — precisa Mancia —. E non, come spesso si fa, cominciare con uno e poi associarne un secondo. La combinazio­ne non

Le regole della cura Bisogna valutare le terapie caso per caso e iniziarle al più presto così da evitare danni

solo è più efficace, ma aumenta l’aderenza alla terapia». Non tutto quello che codificano le nuove regole Usa (che ovviamente si sono basate su una serie di ricerche, compreso uno studio chiamato Sprint) è, dunque, criticabil­e: ci sono anche aspetti positivi.

Aspettiamo adesso di conoscere se qualcosa cambierà anche per i pazienti europei e italiani con le nuove raccomanda­zioni dell’esh.

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