LA BATTAGLIA (E I RITARDI) PER SALVARE VENEZIA
Nel ‘68 Montanelli parlò di corrosione. Il degrado di oggi visto da 7
«Otto de sera. Camino verso el Pontil del Monumento, trovo un grupeto de turisti. “Scusi”, i me dixe, “a che ora chiude?”. Rispondo: “Tranquilli: i vaporetti vanno, più rari, anche la notte”. I me varda: “Non i vaporetti: Venezia! Quando chiude, Venezia?”. Robe da mati: i credeva che Venessia fosse un parco turistico!».
Non c’è aneddoto come questo, raccontato da Gianpietro Zucchetta, barba alla capitano Achab, perito giudiziario per mestiere, marinaio per passione, autore di vari libri su Venezia, i suoi ponti, i suoi rii, che spieghi meglio la beata ignoranza con cui immani moltitudini di persone visitano «la più bella città del mondo» nella totale insipienza. Come visitassero la location di uno sceneggiato o i baracconi degli Universal Studios. Decine e decine di immagini, del resto, documentano il degrado di questi anni. Ciccioni sudaticci che solcano le calli panza in fuori senza camicia, sozzoni che pisciano dove capita, donne orientali che massaggiano il marito seduti in acqua, tuffi di bulli dai ponti di Calatrava o di Rialto, abbuffate collettive coi pentolini in mezzo alle piazzette, sacchi a pelo, coppiette che fanno sesso, mucchi di immondizie, un ragazzotto che fa il bidè in una fontanella, nudisti che fanno il bagno nei canali, spiritosoni con le bici d’acqua… Uno sconcio che, dopo decenni di polemiche, solo da poco comincia finalmente (esempio: il numero chiuso a Carnevale) ad essere affrontato.
«Il processo di corrosione non si limita alle pietre, alle case, alle cose», scrisse nel 1968 Indro Montanelli, che di Venezia fu innamoratissimo e deluso: «Ha intaccato la fibra morale degli uomini, il loro coraggio, la loro volontà di sopravvivere». Aveva allora, la città storica, 116.270 abitanti. Ne ha oggi, come ricorda il conta-residenti collegato all’anagrafe e in vetrina alla farmacia Morelli (Dio la benedica) 53.979. Meno della metà. E quando 7 sarà in edicola, purtroppo, dovrebbero essere ancora meno…
Tre decenni dopo l’alluvione, dopo le battaglie per salvare la città, dopo le cause giudiziarie scatenate contro di lui dal sindaco Giovanni Favaretto Fisca, il grande Indro tornò sul tema nel ‘96, rispondendo a un lettore: «Quanto al vecchio amore per Venezia, debbo confessarle che si è anch’esso consumato quasi quanto la Fenice. Come scrissi in tempi lontani, e come ormai mi sono stancato di ripetere, Venezia non aveva, per restare Venezia, che una scelta: mettersi sotto la sovranità e il patronato dell’onu per riceverne il trattamento, che certamente le sarebbe stato accordato, dovuto al più prezioso diadema di una civiltà non italiana, quale la Serenissima mai fu né mai si sentì, ma europea e cristiana, intesa unicamente alla conservazione di se stessa, quale tutto il mondo civile la vorrebbe. Venezia invece preferì diventare l’appendice, anzi l’anticaglia o il robivecchi di Marghera mettendosi al rimorchio delle sue ciminiere e petroliere, cui sacrificò anche tutto il suo delicatissimo sistema idraulico (…) Ed il risultato lo abbiamo sotto gli occhi: un turismo di massa con la merenda al sacco, che fa i suoi bisogni sotto i loggiati…».
Sarebbe bastata, l’onu? Mah… Altri vent’anni e sul tema sono tornati, sempre più allarmati, il New York Times, il Guardian e altri: «Venezia è come Disneyland». Finché il National Geographic si è spinto a scrivere: «Chi ama Venezia con coscienza ha il diritto di incoraggiare altri a visitarla?». Domanda scomoda.
Numero chiuso Lo sconcio inizia a essere affrontato: per esempio col Carnevale a numero chiuso