Non sparate sulla democrazia
Controlli e ripartizione dei poteri per ridurre il rischio degli incompetenti al governo
La democrazia rappresentativa è nata come forma epistocratica e tale è rimasta per lungo tempo, nell’antichità prima e poi in tutto il periodo del suffragio limitato. L’elezione era considerata ancora alla fine del XVIII secolo la scelta di chi possiede più saggezza per discernere e più virtù per perseguire il bene comune (Federalist papers, n. 57). Il fondatore del diritto pubblico italiano, uno studioso che è stato attivo anche come uomo politico per più di trent’anni, Vittorio Emanuele Orlando, riteneva che l’elezione fosse una designazione di capacità: un gruppo ristretto di elettori indicava quelli che riteneva capaci di gestire problemi collettivi. Chi votava, sceglieva non solo kratos, ma anche aretè e epistème, non solo forza, ma anche virtù e competenza.
Questo valeva quando il suffragio era limitato per censo, o per grado di istruzione, o per esperienza nell’esercizio di funzioni pubbliche. Successivamente, il suffragio è stato allargato prima, progressivamente, alle sole persone di sesso maschile, poi anche alle donne e si è diffusa l’idea che all’eguaglianza nella titolarità dell’elettorato attivo corrispondesse eguaglianza delle capacità.
Idea, quest’ultima, molto singolare e persino smentita dalle norme. Singolare perché è palese che l’aver attribuito ai cittadini un compito tanto gravoso quanto il governo della «casa comune», in condizioni di eguaglianza, non comporta che tutti i cittadini siano egualmente edotti delle esigenze di gestione della «casa comune», capaci di scegliere tra i diversi indirizzi di gestione, abili nello scegliere le persone giuste, idonei ad assumere essi stessi funzioni di governo.
In secondo luogo, la parificazione di eguaglianza formale e di eguaglianza sostanziale in materia politica è smentita dalla Costituzione, la quale riconosce la prima, ma prevede che la Repubblica abbia il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono l’«effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (articolo 3). Quindi, la Costituzione assume che vi siano diseguaglianze di diverso ordine che ostacolano l’effettiva partecipazione politica. Di fatto, per circa un secolo, il vuoto creato dal suffragio universale è stato riempito da un altro sistema di formazione e di selezione: gli Stati hanno delegato il compito di superare le diseguaglianze tra i cittadini, ai fini della partecipazione politica, ai partiti, che hanno svolto il compito di «palestra» per la formazione e la selezione dei candidati. Ma, a un certo punto, anche i partiti sono venuti meno.
Oggi, anche per la diffusione di istanze populistiche, molte classi dirigenti, nel nuovo millennio, hanno raggiunto — ma non in tutti i Paesi in maniera eguale — un grado di mediocrità tale da suscitare reazioni antidemocratiche. Una di queste, molto ben articolata, si trova nel volume di Brennan, programmaticamente intitolato Contro la democrazia (Luiss University Press), un’opera nella quale il punto di partenza è che l’epistocrazia (il governo di coloro che conoscono, dei competenti) condurrebbe a migliori decisioni, più giustizia, più prosperità.
La democrazia rappresentativa è criticata principalmente perché la maggior parte dell’elettorato ha bias cognitivi che lo portano a deviare sistematicamente da scelte razionali: basti pensare ai costi del terrorismo per gli Stati Uniti (3.500 persone morte