Candidato più volte al Nobel, è nato quando dominava l’impero asburgico. La sua vita è un romanzo che ha attraversato la storia del Novecento: «Mai smettere di coltivare i propri interessi»
Chi è
● Boris Pahor è uno scrittore sloveno. Nato a Trieste nel 1913, ha combattuto in Libia nel 1940: nel 1944 fu catturato dai nazisti e internato in diversi campi di concentramento
● L’opera più nota è «Necropoli», romanzo autobiografico sulla prigionia nel campo di Natzweilerstruthof A vere 104 anni e non sentirli. «O meglio — dice — ogni volta che mi prende un malanno per un attimo penso all’età che avanza. Poi passo oltre. L’espressione “sono diventato vecchio” per me non esiste». L’incontro con Boris Pahor nella villetta dove abita, affacciata sul golfo di Trieste, non è il primo. Ma questa volta è speciale. Sorprendente. Occorre persuadere lo scrittore ad affrontare il tema della vecchiaia, distogliendolo dagli argomenti — importanti e drammatici — che hanno segnato la sua lunghissima vita. Spicca l’azzurro del maglioncino che indossa mentre parla seduto di fronte a noi. Gagliardo. «Ti dedico un’ora e non di più — avverte —. Devo cenare in anticipo, poi vengono a prendermi per andare al Teatro Rossetti. Proiettano il film-documentario di Elisabetta Sgarbi, “L’altrove più vicino”. Dentro c’è anche la lettura di brani delle mie opere». Sorseggia acqua da una bottiglietta, di tanto in tanto: «Prescrizione medica, a causa di un’ernia iatale. Sia chiaro, non sono amico dei dottori. Tendenzialmente, mi curo da solo. Il mio ricostituente? Latte e zucchero. Se non c’è fresco, va bene condensato. Questo alimento mi ha aiutato quando non avevo di che nutrirmi». La badante porta il caffè per entrambi. Nelle parole di Pahor lei «è la gentile signora che si occupa di me», 24 ore su 24, soltanto da pochi mesi. «Mi sono deciso a questo passo dopo una caduta in casa», spiega. Il grande vecchio, vedovo dal 2009, in seguito alla morte della moglie Rada («era una donna bella e spumeggiante»), abitava da solo. Si faceva bastare una colf saltuaria per le faccende domestiche.
L’esistenza centenaria di Pahor è un romanzo. Sloveno di cittadinanza italiana, nato a Trieste quando ancora dominava l’impero asburgico, ha vissuto sulla sua pelle i più grandi orrori del passato: la prima guerra mondiale, la repressione fascista nella Venezia Giulia, la seconda guerra mondiale, l’esperienza nei campi di concentramento nazisti (aveva collaborato alla resistenza antifascista slovena); infine, l’ostracismo comunista all’epoca della Jugoslavia di Tito. Scrittore prolifico, tradotto in tutto il mondo (più volte candidato al Nobel), la sua opera più famosa è “Necropoli”, viaggio nella memoria dei terribili giorni passati nel lager di Natzweiler-struthof. Scritta in sloveno nel 1967 (la lingua madre è una precisa scelta di appartenenza, Pahor si laureò a Padova in Letteratura Italiana), in primis fu tradotta e apprezzata in Francia. Nel nostro Paese invece il testo fu pubblicato soltanto nel 2008. Da allora, la notorietà dello scrittore è andata crescendo.
Il grande vecchio sorride: «Non ti vedo bene, ma ascolto le domande». Porta gli occhiali, ma ha perso la vista dell’occhio destro. Gliene rimane uno buono. Così può ancora battere sui tasti della macchina per scrivere. Sentenzia: «Mai smettere di coltivare i propri interessi, se si hanno le forze. Ad ogni età. Viaggiare o collezionare francobolli, non importa; occorre avere cura per ciò che si desidera fare. Io lavoro ancora». Un libro? «Sì, un libro. Complicato. Mi lasciano perplesso alcune opinioni dell’amico Alojz Rebula, che ora sembra aver cambiato orientamento. È una questione complessa. Riguarda il ruolo svolto dai cristiano-sociali durante la seconda guerra mondiale e la loro partecipazione alla lotta di liberazione. Nel suo ultimo saggio ‘Korintski