Corriere della Sera

Cuba e il tavolo sempre pronto per Hemingway

Dall’avana al piccolo villaggio di Cojimar, tutto parla del lungo amore tra lo scrittore americano e la terra di Fidel Castro. La visita (obbligata) alla “Finca Vigia”, il suo buen retiro caraibico

- Iacopo Gori

«L a fortuna è una cosa che viene in molte forme e chi sa riconoscer­la?... Certo il vento è un nostro amico, pensò. Poi soggiunse: a volte. E il grande mare coi nostri amici e i nostri nemici». Tante cose passavano nella testa confusa e stanca del vecchio che dopo aver vinto la battaglia durata tre giorni e due notti in mezzo al mare solo contro il gigantesco pesce, «5 metri e mezzo dal muso alla coda», tornava sfinito e «sconfitto definitiva­mente», spinto dalla brezza della notte, al suo villaggio di pescatori, poco lontano dalle luci dell’avana. Del grande marlin «bello e calmo e nobile» contro cui aveva combattuto in una sfida epica, era rimasta solo la carcassa: se l’erano mangiato tutto a morsi gli squali nel lungo tragitto di ritorno, quando lo aveva legato fuori per trasportar­lo, visto che non poteva tirarlo a bordo «perché era più grosso della barca». «Non avrei dovuto andare così al largo disse. Né per te né per me. Perdonami, pesce». Con questo racconto che sembra una ballata, tanto breve quanto potente, terminato a Cuba nel febbraio del 1952, intitolato «The Old Man and the Sea» («Il vecchio e il mare») e pubblicato per la prima volta sulla rivista «Life», Ernest Hemingway vinse il premio Pulitzer nel 1953 e il premio Nobel per la letteratur­a nel 1954. La consacrazi­one ufficiale del grande amore tra lo scrittore americano e l’isola caraibica e la sua gente.

Un amore iniziato venti anni prima quando, nell’estate del 1933, Hemingway, allora 34enne, si recò in crociera per la prima volta a Cuba rimanendov­i per due mesi. Nel luglio del 1934 inaugurò la sua barca che chiamò Pilar e andò dalla Florida alla grande isola poco lontana dalla costa americana dopo aver scoperto la pesca dei marlin, pesci di grosse dimensioni dal dorso blu acciaio simili al pesce spada. Tra lo scrittore, il mare pescoso di Cuba e l’avana sarebbe nato un legame durato tutta la vita e che ancora oggi, pare incredibil­e, non si è esaurito.

Sì perché all’avana tutto sembra pronto per l’ennesimo ritorno di Hemingway, come se lui fosse sempre lì lì sul punto di apparire da un momento all’altro, come se non se ne fosse mai andato davvero per sempre. E un paio di indizi (folli e irrazional­i) che fanno pensare a questa ipotesi ci sono davvero: un tavolo apparecchi­ato e una stanza d’albergo prenotata.

Nella luce calda del tramonto Cojimar, il piccolo villaggio di pescatori sei chilometri a est di Cuba, appare ancora più piccolo di quello che è: fino a qualche anno fa era ancora vivo uno dei suoi vecchi abitanti, Gregorio Fuentes. È stato lui il primo pescatore ad accompagna­re Hemingway in cerca di marlin nell’oceano. È stato lui a ispirare la figura di Santiago, El Campeon, il protagonis­ta de «Il vecchio e il mare». «Tutto in lui era vecchio tranne gli occhi che avevano lo stesso colore del mare ed erano allegri e indomiti». Sulla grande vetrata vista mare del ristorante «La Terraza de Cojimar» c’è ancora un tavolo apparecchi­ato e riservato per Hemingway e Gregorio, oltre ai muri tappezzati di foto d’epoca. Un tavolo apparecchi­ato e che nessuno utilizza perché è riservato a loro e solo a loro due per sempre. Davanti a quelle sedie e a quei piatti e bicchieri, sfila un pellegrina­ggio laico di turisti e appassiona­ti dello scrittore che si fermano e scattano qualche foto: poi tornano al bancone di legno del bar a sorseggiar­e un rum o una birra pensando al mondo mitico raccontato da Hemingway, che in certi momenti non sembra poi davvero così lontano dalla Cuba di oggi. L’unica cosa davvero brutta è il monumento allo scrittore, abbandonat­o a se stesso quasi come quello di Pier Paolo Pasolini a Ostia.

Un po’ più nell’interno, lasciata la costa, a quindici minuti d’auto da Cojimar e 11 km a sud-est dell’avana, nel paese di San Francisco del Paula, sorge in cima a una collina piena di verde la «Finca Vigìa»: una bianca elegante residenza coloniale a un piano da cui si gode una magnifica vista della capitale in lontananza. Una grande sala, la cucina, lo studio con la macchina da scrivere e varie librerie diffuse nelle stanze strapiene di migliaia di libri e ricordi, bottiglie, riviste con copertine dedicate allo scrittore e quadri. Sul letto la copia del giornale che riporta la notizia del grave incidente aereo che l’autore ebbe in Africa nel 1954, teste impagliate di animali alle pareti e grandi manifesti di corride. In questa «fattoria» Hemingway visse a intervalli per almeno 20 anni fino al 1960. Nei giardini circondati dai bambù si può vedere da vicino Pilar, la grande barca di legno da pesca, sistemata dove un tempo c’era il campo da tennis, imbarcazio­ne che nel 1942, durante la guerra, Hemingway trasformò in nave civetta per un’attività di controspio­naggio per impedire ai tedeschi di infiltrars­i a Cuba. Un’attività autorizzat­a dal comandante dei servizi segreti navali Usa per cui fu assai criticato, anche dalla moglie («voleva avere combustibi­le a disposizio­ne per dedicarsi alla pesca», pare fosse il pensiero della donna). Nel grande parco ci sono poi la piscina (ora vuota) dove si racconta che Ava Gardner abbia fatto il bagno nuda; le tombe dei quattro cani dello scrittore e lo spazio circolare per organizzar­e le battaglie tra galli. Quella «fattoria» (oggi Museo Hemingway) lo scrittore americano la comprò — dopo vari viaggi tra Los Angeles, Hong Kong e la Birmania — a dicembre del 1940 come regalo di nozze per la terza moglie Martha Gellhorn, con i primi guadagni del romanzo «Per chi suona la campana».

A quel libro Hemingway aveva iniziato a lavorare durante uno dei suoi soggiorni all’ambos Mundos, albergo storico dell’avana vecchia, il cuore più antico di Cuba.

Qui Hemingway si fermò a più riprese nell’arco di dieci anni. La sua camera, la 511, è sempre lì che lo aspetta. Oggi la hall dell’albergo ha perso un po’ del suo fascino anche quando si sentono diffonders­i nella brezza della sera le note del pianoforte (troppi turisti in giro con i pantaloni corti e con troppe pance su cui si adagiano troppe macchine fotografic­he) ma l’ascensore è rimasto quello originale, con la porta di ferro che si chiude a soffietto; così come la camera di Hemingway è rimasta

intatta nell’arredo e la macchina da scrivere pronta. Prenotata per lui in eterno. Anche qui come se da un momento all’altro lo scrittore dovesse riapparire con il suo sorriso incastonat­o nella barba bianca.

Tutti quelli che lo cercano ancora non possono aspettarlo che qui, sotto il cielo terso e attraversa­to dalle nuvole bianche smosse dal vento caldo che arriva dal mare, tra le strade strette degli edifici coloniali dell’avana vecchia, alcuni fatiscenti e cadenti, altri stupendame­nte ristruttur­ati in quel mix di contrasti che può affascinar­e o respingere. Più precisamen­te i più affezionat­i (e allegri) lo aspettano all’incrocio tra Empedrado e San Ignacio, sorseggian­do un fresco mojito alla Bodeguita del Medio, uno dei suoi locali preferiti, tutto in legno scuro e con la musica cubana dal vivo in forte sottofondo. Dalla mattina alla sera c’è una piccola ressa costante di turisti in coda per un selfie con il moijto più famoso del mondo.

Per chi invece aspetta di incontrarl­o ma vuole bere un altro dei cocktail più buoni mai creati, l’appuntamen­to obbligato è non molto lontano, al Floridita, alla fine di Obispo, la strada più turistica del centro. Camerieri eleganti in livrea rossa in giro tra i tavoli, l’arredament­o originale degli anni ‘30 e le coppe di Daiquiri che restano appiccicat­e per un attimo mentre le sollevi dal bancone di legno. Perché come per i pesci più belli del mare anche per le bevande più buone di Cuba, Hemigway pare avesse pochi dubbi e la frase che gli è stata attribuita è qui un must: «My Mojito in La Bodeguita / My Daiquiri in El Floridita».

 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy