Io conto il denaro che non conta più
L’«autobiografia economica» di Walter Siti: «Così il senso dei soldi si è trasformato»
Chi l’avrebbe mai detto? Anche il denaro evapora. Pesa sempre meno. Perlomeno nella versione delle fruscianti banconote o dei tintinnanti dobloni con i quali riempiva la sua piscina Paperon de’ Paperoni. In mancanza di certezze su entrate e uscite, molti giovani — è la tesi dello scrittore Walter Siti — hanno imparato a farne (quasi) a meno, a procurarsi diversamente i piaceri tipici dell’età. La musica, i film: perché comprarli quando possono essere scaricati da internet? I viaggi: perché spendere per un albergo, quando si può fare uno scambio di divani-letto tra Milano, Istanbul o San Francisco con il couchsurfing?
Ed ecco venir meno anche il piacere, molto apprezzato dalle generazioni precedenti, di coniugare l’ingresso nell’età adulta con la prima busta paga; e gli avanzamenti professionali e sociali, con l’appesantirsi della stessa: «Avrei potuto farmi accreditare lo stipendio sul conto corrente — Siti racconta i suoi esordi di insegnante universitario, a 39 anni — ma ogni 27 mi presentavo invece allo sportello. L’impiegato contava le banconote da cento e cinquantamila, che erano parecchie, e alle mie spalle qualcuno del personale non docente commentava, tra l’ammirato e l’invidioso: “Ma non finiscono mai!”. Vanagloria aggressiva di cui non mi vergogno: con quella mazzetta di banconote nella tasca rigonfia correvo a comprarmi qualcosa che avevo adocchiato in vetrina nei giorni precedenti, una statuetta ashanti della fertilità o un gilettino dai colori accesi».
Tutto ciò doveva accadere attorno alla metà degli anni Ottanta, quando il dilemma fra Pagare o non pagare, titolo del pamphlet di 137 pagine che Walter Siti ha scritto per Nottetempo (in libreria dal 1° marzo), sarebbe suonato bizzarro, mentre si profilavano all’orizzonte l’avvento di Berlusconi, «il compratore assoluto», e della sua epoca.
Da quando Walter Siti si è appassionato all’economia?
«Non sono un economista, lo so, mi sono dovuto accontentare di leggere sei o sette libri di tipo divulgativo su temi come la fine della proprietà privata; del resto, non volevo scrivere un saggio, ma un’autobiografia economica. Io rappresento il tipico caso di ascensore sociale: provengo da una famiglia di operai che negli anni Sessanta, con l’aiuto di qualche piccola borsa di studio, poteva sperare di fare un salto sociale. All’università i miei compagni apparteneattratto vano a famiglie molto più abbienti. E adesso che sono un settantenne con un piccolo benessere garantito da una pensione maturata secondo il calcolo retributivo, mi sento in colpa».
In colpa?
«Sì, dal mio sicuro ballatoio di classe media, mi sento in colpa nei confronti di tutti quei ragazzi per i quali questo tipo di ascensore sembra non funzionare più. Inoltre questo piccolo libro mi serve da corollario del mio lavoro di narratore: mi interessano i cambiamenti sociali sui tempi lunghi per capire che cosa si modifica nel cervello delle persone. Non è strano che i romanzieri raramente raccontino di che cosa vivano i loro personaggi?».
Forse per non mortificarli con questioni di vil denaro.
«Già. Però ciò che non costa di solito non ha valore ai nostri occhi. Io stesso non prendo mai i giornali gratuiti all’ingresso del metrò perché penso che siano inaffidabili, invece probabilmente non è così. Il mio è soltanto un riflesso psicologico».
Memoria
«Nelle famiglie operaie si ricordava il sudore dei padri e il piacere di pagare era legato a ogni piccolo salto di classe»
E il «consumo-coccola»?
«Quello capita anche a me: se devo scegliere tra due bottiglie di vino sconosciuto da portare in dono a una cena opto istintivamente per il più caro. L’economia è anche psicologia. L’informazione online è gratuita ma non mi convince. I social non fanno nascere esigenze d’acquisto, come la pubblicità, ma bisogni mentali».
Di che genere?
«Ho quasi 71 anni e non so bene che cosa facciano i giovani. Ne frequento pochi, a parte i ragazzi dei miei corsi di scrittura creativa, ma mi pare che non diano spazio alla solitudine. Se hanno tre ore libere, le riempiono comunicando con venti persone. Mi colpisce la loro necessità di occupare tutto il tempo a disposizione».
Ma a Siti ventenne non sarebbe piaciuto viaggiare in Blablacar ed essere ospitato su un divano?
«Mi sarebbe piaciuto moltissimo: sono da tutte le novità. Ma comprarmi l’auto è stato per me come un rito di passaggio per un giovane africano. Ero diventato adulto. Mio nipote, di 27 anni, non vede perché dovrebbe acquistare un’auto quando con le nuove promozioni può tenerne una per tre anni e poi restituirla e cambiarla. La fine di quel passaggio è un grande mutamento».
Forse anche un segno di minor attaccamento al «cash», nei giovani.
«No, non penso. È ancora forte l’idea che per avere valore occorra avere denaro. Se ne hai molto puoi perfino buttarlo. L’avidità è aumentata perché non è più legata alla materialità delle banconote. Oggi i figli dei ricchi hanno la carta di credito senza tetto, così perdono il senso di quanto costa il denaro».
Non usa più dire che i soldi non crescono sugli alberi?
«Quello si diceva nelle famiglie borghesi. In quelle operaie si ricordava il sudore dei padri o dei nonni. Il piacere di pagare era legato a ogni piccolo salto di classe: posso pagare quello che vent’anni fa mio padre non poteva permettersi».