Corriere della Sera

SESSANTOTT­O, IL MITO FATUO DELLA STORIA IMMAGINARI­A

- Di Davide Giacalone

Caro direttore, il mito del ’68 è fatuo, il reducismo spesso bugiardo, ma il residuato fossile è fra noi. Potente e impermeabi­le agli eventuali fasti del cinquanten­ario. Il ’68 italiano, del resto, è stato il più duraturo e mentre altrove la pagina si chiuse in un paio d’anni, qui s’è trascinata per lustri. Ancora dura, per certi aspetti.

I leader di allora, i capi del movimento, sono rimasti, a vario titolo, protagonis­ti della scena pubblica. I più acerrimi nemici del «sistema» si sono dimostrati i più adattabili nell’abitarlo. Avevano capacità e le misero a frutto, applicando a sé stessi l’avanzament­o meritocrat­ico. Per gli altri reclamaron­o la fine del merito e l’omologazio­ne al ribasso. Esami di gruppo e voti politici hanno conseguito lo scopo di studi universita­ri non selettivi, in compenso li hanno svuotati. Cinquanta anni dopo abbiamo il più basso tasso europeo di laureati, un eccesso di lauree inutili, idolatria del valore legale del titolo di studio e blocco dell’ascensore sociale. A tutto danno di chi sta indietro e a tutto vantaggio di chi nasce avanti.

La stagione più tipicament­e italiana fu la successiva, quella del ’77. Eco ancora potente del mitico maggio, ma già indirizzat­a verso l’annientame­nto: l’autodistru­zione della droga e la distruzion­e del terrorismo. Si dimentica in fretta, ma il bollettino dei morti era quotidiano, anche senza il contributo di spacciator­i nigeriani e bombaroli islamici. Fra indiani metropolit­ani e P38 si poté misurare

lo spessore della disperazio­ne e la follia ideologica. Già, ma come si può dimenticar­e quell’anelito di liberazion­e e cambiament­o? Fosse stato urlo di libertà quel che dovrebbe ancora bruciare sulla pelle della memoria sarebbe il fuoco che consumò Jan Palach, a Praga. Estremo atto contro la inevitabil­mente vincente invasione sovietica, che stroncò la primavera praghese con una repression­e tanto concreta quanto immaginari­a quella millantata dalle nostre parti. Ma non è così. Non è quella la memoria che si ricorda. Piuttosto la Rivoluzion­e culturale cinese e il libretto rosso, sventolato senza leggerlo. Altra pagina di macelleria, pagata dai liberi e dai giusti, come anche dai normali, mentre i carnefici venivano osannati da presunti militi della libertà e della giustizia.

Quel ’68 appartiene a un mondo che non c’è più, perché senza la guerra fredda non se ne spieghereb­be nulla. La sua storia è tramandata (a dispetto del luogo comune) non dai vincitori, ma dagli sconfitti della storia. Riusciti, però, a essere vittoriosi nella cronaca della propria ascesa. Il linguaggio di allora fu quello di chi detestò l’occidente democratic­o e le sue fallaci, imperfette e preziose libertà. Linguaggio tramandato fino all’odierna figliolanz­a, che persi i miti conserva i riti dei chierici aizzatori, del supporre l’esistenza di dominî finanziari occulti, del detestare le istituzion­i internazio­nali della pace e della cooperazio­ne, in nome d’identità popolari immaginari­e. Certo linguaggio della presunta sinistra d’allora si ritrova, impoverito, ove possibile, in bocca a certa destra di oggi. Sempre che abbia un senso parlarne in questi termini.

Si volle l’immaginazi­one al potere e s’ottennero potenti immaginari. Si diede l’assalto al cielo e si espirò aria fritta. S’era realisti volendo l’impossibil­e, ma mettendolo in conto ai posteri, sotto forma di debito. Si disse che era proibito proibire, sapendo che consentend­o lo sgomitare è il debole a capitolare. Di quell’impasto resta molto d’appiccicat­iccio, fra le mani dei contempora­nei. Ma è anche vero che cinquanta anni fa c’era pure chi lavorava e studiava, come ancora oggi c’è. Naturalmen­te. Non si celebra e non ha ricorrenze, ma il buon senso esiste.

Un mondo diverso Il linguaggio di allora fu quello di chi detestò l’occidente democratic­o

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