Corriere della Sera

La guerra che noi non vogliamo vedere

- Di Pierluigi Battista

Quale eccesso narcisisti­co e (un tempo si sarebbe detto) «eurocentri­co» ci fa dire con tremebondo esorcismo che «corriamo il rischio» di una guerra, che «stiamo sfiorando la guerra», che l’umanità è «sull’orlo» di una guerra. Diciamo che la guerra ci lambisce ma, come ha notato Adriano Sofri sul Foglio, la guerra non ci lambisce affatto, per il semplice motivo che c’è già, le stragi ci sono già, le città rase al suolo ci sono già, i civili massacrati ci sono già. Diciamo che corriamo il rischio della guerra solo quando entrano in gioco le potenze mondiali, o quando le nostre metropoli sono violentate dal terrorismo stragista, oppure quando assistiamo agli sbarchi di chi fugge disperato. Ma nella nostra psicologia collettiva abbiamo eretto un muro solido tra noi e loro. La loro guerra lontana è un rombo di tuono, e se dobbiamo averne paura è perché ci «lambisce». Non sono guerra le carneficin­e di oltre sette anni che il carnefice Assad ha provocato in Siria, anche usando il gas contro il suo popolo. Non è guerra la demolizion­e di Aleppo. Non è guerra la decimazion­e dei curdi, equamente massacrati dai turchi, dai siriani, dagli iracheni filo-teheran. Non sono guerra i missili che in Libano Hezbollah, foraggiato dall’iran, sta ammassando ai confini di Israele e l’europa delle cancelleri­e inette e inesistent­i si indignerà solo se Israele vorrà reagire al primo lancio di quei missili. Per non infangarci abbiamo voluto che contro l’isis a terra ci fossero solo i curdi. Ora che a terra a essere colpiti sono i «contractor­s» stranieri sale il nostro allarme. Oltre trecentomi­la morti civili non sono guerra, sono per noi solo presagio di una guerra che ancora non vogliamo vedere. La crudeltà diventa un parametro di cui tener conto solo se siamo noi a esserne vittime. Le stragi che già si consumano uccidono quantità immense di esseri umani, ma nella nostra insensibil­ità collettiva diventano quantità trascurabi­li. Per difenderci ci confortiam­o con terribili dittature adibite al mantenimen­to dell’ordine, e ci accorgiamo della loro ferocia solo quando a essere colpito è un ragazzo come Giulio Regeni. Siamo degli ipocriti, ma essendo degli ipocriti impauriti tremiamo se c’è il rischio che la guerra, che per «loro» c’è già, possa «lambire» i nostri confini. Il nostro linguaggio è lo specchio della nostra ipocrisia.

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