IL BATTITO ANIMALE
L’appuntamento A Bologna Outdoor Expo in scena le attività all’aperto, nuovo fenomeno del turismo. Uno scrittore racconta come nella natura selvaggia ha sconfitto la malinconia urbana ADDIO ALCOL E INCAROGNIMENTO UN’AVVENTURA NELLA FORESTA M’HA RICONCILIA
Qualche anno fa, mi chiamò un amico scrittore e mi chiese un favore: avrei dovuto sostituirlo come reporter per un viaggio organizzato da una rivista che si occupava di ambiente. In quel periodo mi ero lasciato con la mia ragazza e passavo quasi tutto il tempo a casa, a ubriacarmi con vino scadente e liquori dolci e micidiali, e a fissare la parete della stanza per rivedere scorrere la nostra storia: in murovisione. Dissi subito di sì, come a tutte le proposte improvvise, come a tutte le sue proposte, e solo in un secondo momento mi informai sulla destinazione.
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Il contatto «vegetale» Dopo lo sfogo del pianto, mi sono messo a giocare con la mimosa sensitiva Se la tocchi, si ritrae
San Fernando de Apure, Campo avventura San Leonardo, Venezuela.
Sei ore dopo ero sul primo aereo per Caracas, insieme a fotografi professionisti e giornalisti specializzati, tappato nel minuscolo bagno a scorticarmi gli occhi dalle lacrime e a bere bottigliette mignon a garganella. Sbattevo la testa sul pannello a guscio del water. Perché? Perché avevo accettato?
Fiume Canaparo, affluente dell’orinoco, tramonto. Questa è la prima scena che ricordo di quel viaggio. In un’imbarcazione indigena a motore, che mi pare si chiamasse Bongo, scattavamo foto agli iguana, alle scimmie e anche ai caimani con gli occhi verdi. Loro, i miei compagni di avventura, le scattavano: io la mia Kodak fun comprata all’aeroporto l’avevo lasciata al villaggio e ora me ne stavo sulla prua della barca a guardare i disegni della schiuma e della scia sulla superficie dell’acqua e ascoltavo con le cuffie un vecchio album dei Red Hot Chili Peppers a livello 10 di volume. Non sentivo niente, non vedevo niente. Ogni tanto qualcuno di loro si alzava come un cecchino dalla sua seggiolina e dopo aver annunciato nomi che dal movimento delle labbra deducevo fossero Pappagalli verdi! King fish! Ibis nero! Hoatzin! — puntava il suo cannone con teleobiettivo da 300 mm verso punti invisibili nel cielo o verso la foresta ai due lati del fiume e scattava, scattava, scattava... Io continuavo a sentire la mia musica, e osservavo gli arabeschi e i disegni tracciati sul fiume dall’acqua respinta dalla prua e cercavo di carpirne l’esatta analogia.
Un’altra immagine che mi porto dietro e non posso dimenticare: io e i miei compagni, alle sette di mattina, in piena riserva ecologica, fanghiglia e acqua fino alle gimano. nocchia, uno dietro l’altro. Loro sfoggiavano marsupi in fibre riciclate, zaini impalpabili di talca, idrorepellenti, che cambiavano colore con l’aumentare e il diminuire della temperatura (o almeno era quello che mi sembrava, ma poteva essere anche una mia allucinazione dovuta all’astinenza da alcol), scarponcini Timberland in camoscio e tessuto impermeabile con fondo di gomma, scarponi da trekking in cuoio e tela con imbottitura alla caviglia… io invece indossavo vecchie Superga bianche, una maglietta gialla slambricciata e Levi’s rimboccati dentro. Ricordo che ero l’ultimo della fila e scivolavo continuamente e mi aggrappavo alle piante e ai rami che trovavo a portata di Intorno a me, piume di cormorani, lenticchie d’acqua, e gas organici che friggevano. A un certo punto, mentre era calato uno strano silenzio e i miei compagni cercavano di fotografare gli aironi bianchi con gli occhi gialli, a me è caduto il telefonino nella palude e non è stato più possibile riprenderlo, perché la guida mi ha informato che sotto di noi strisciavano i baba, cioè i coccodrilli.
La notte, non riuscendo a chiudere occhio nella capanna di fango, ricordo che sono uscito fuori all’aria aperta a spremermi dagli occhi tutte le lacrime che avevo e, dopo essermi sfogato, mi sono messo a giocare con la «mimosa sensitiva», che lì chiamano mimosa pudica, o vergonzosa, perché non appena la sfiori, lei si richiude a ventaglio e non si riapre mai più.
Dopo un po’ mi ha raggiunto la guida, che somigliava a Lucio Dalla ai tempi di «Eroi di cartone», e per qualche motivo anche lui non riusciva a dormire. Non ricordo come ho iniziato, ma mi sono ritrovato a parlare con questo sconosciuto, ad aprirmi, cosa che non facevo da anni: gli ho confidato che pensavo di aver perso la capacità di sentire con la stessa intensità di una volta, quando ero più giovane.
Temevo di essere diventato incapace di intrattenere una qualsiasi relazione, di offrire la mia intimità. Siamo rimasti a parlare fino verso le cinque, e all’alba siamo partiti tutti per la montagna chiamata Abisso, luogo dove finiva la Sierra de Pacaraima e iniziava la selva Amazzonica. Mi ricordo perfettamente il sottobosco umido e lussureggiante e che mi sentivo sfiorare le guance da dendriti lanuginose e che mi addentravo in profondità in quel grande organismo, in quel grande cervello, e avvertivo che, dopo mesi di alcol e di incarognimento, la mia personalità stava facendo ritorno.
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