Corriere della Sera

TRA PD E 5 STELLE LO SCONTRO È SU VOTI E CENTRALITÀ

- di Massimo Franco

L a virulenza dello scontro tra Pd e M5S fa capire che la competizio­ne tra il partito di Matteo Renzi e il movimento di Luigi Di Maio si consuma, in parte, nello stesso bacino elettorale. E le frecciate del segretario dem contro i Liberi e uguali di Pietro Grasso, «che non è di sinistra perché fa vincere la Lega», evocano una tenaglia dalla quale il centrosini­stra teme di uscire malconcio. Renzi si dichiara deciso a non dimettersi anche se perde. Ma poi parla di una rimonta in atto: al punto che il Pd sarebbe «già primo partito in un ramo del Parlamento».

È al Senato, pare di capire, dove il leader si è candidato ribadendo che rifarebbe «domattina» il referendum che voleva abolirlo. È una contraddiz­ione che conferma la preoccupaz­ione della maggiore forza di governo. La stessa idea di un primato alla Camera «alta» fa trasparire il tentativo di essere centrale per qualunque maggioranz­a. D’altronde, il controllo sul partito rimane ferreo. Lo sforzo tende a mostrare le ambiguità dei Cinque Stelle; e a smentire la

L’ipoteca

Le due forze si contendono con Leu una porzione di voti di sinistra per ipotecare i futuri giochi alle Camere

vulgata grillina secondo la quale il Pd sarebbe già sotto il 20 per cento dei voti.

Lo schema Di Maio cerca di imporre una lettura delle elezioni che vede uno scontro limitato a M5S e centrodest­ra. In attesa di contare i voti, ci si misura in una guerra di nervi. Il candidato di Beppe Grillo si prepara a presentare in tv gran parte degli aspiranti ministri del suo esecutivo, per ora solo virtuale. Forse non tutti, perché alcuni ricoprono incarichi istituzion­ali e non vorrebbero essere «bruciati» prima di vedere l’esito del 4 marzo. La casella-chiave dell’economia, in particolar­e, sarebbe in bilico.

Ma l’atteggiame­nto, fin troppo spavaldo, tende a presentare il Movimento come il partito con più voti, al quale quasi automatica­mente il capo dello Stato, Sergio Mattarella, dovrebbe assegnare l’incarico. Pretesa opinabile, perché si tratta di sondare chi può formare una maggioranz­a parlamenta­re, e non chi ha voti ma non alleanze. E quando Di Maio sostiene che «siamo noi a dare le carte», non si capisce se apra o chiuda al dialogo: col Pd, e non solo.

Il rapporto col Quirinale è rispettoso. Eppure si accompagna a scarti e avvertimen­ti improvvisi. Tutti negano la disponibil­ità a allearsi con l’uno o con l’altro. In realtà, sanno bene che potrebbero essere obbligati a farlo. Il risultato è una confusione che fa dire al ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan: «Il mio scenario centrale è quello di un’economia che va avanti anche senza un nuovo governo». È possibile che dopo le elezioni «ci sarà una situazione di stallo, che però sarà di stabilità economica». Ha tutta l’aria di un ossimoro politico. Eppure, rischia di essere il simbolo di questa fase.

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