Migranti, l’«atto d’accusa» di Civati
«Potevamo scegliere tra l’accoglienza e la tortura. Abbiamo scelto la tortura». È un atto d’accusa «senza eccezioni, che rivolgo anche a me stesso» l’ultimo libro di Giuseppe Civati, parlamentare, ora in Liberi e uguali. Un saggio breve, con il J’accuse di Émile Zola (1898) come modello, dedicato all’«indifferenza» di fronte ai drammi delle migrazioni. «Il non respingimento — scrive Civati — in Italia sembra una questione per pochi adepti, estremisti dei diritti umani e invece è un principio cardine del diritto internazionale». Voi sapete, edito da La nave di Teseo, affronta le torture dei migranti in Libia — «abbiamo visto quel video diffuso dal Corriere, persone bruciate, bastonate, costrette a terra, che urlano per il dolore» — ma soprattutto il nostro desiderio di rimuoverle: «Fatti troppo mostruosi per essere creduti» scriveva Primo Levi dei campi di concentramento nazisti, «non sto dicendo, ovviamente, che si tratti della stessa cosa — aggiunge Civati — ma che il meccanismo della rimozione funziona in modo terribilmente simile». Ci sono, ricorda, momenti di forte emozione che però «passano presto», come quando fu diffusa la fotografia del piccolo Aylan, morto su una spiaggia turca. Ciò che resta, invece, sono i nostri occhi «di occidentali, di bianchi» che non vogliono guardare. Civati conclude con le parole di Zola: «Ho soltanto una passione, quella della luce, in nome dell’umanità che ha tanto sofferto e che ha diritto alla felicità».