Corriere della Sera

PERCHÉ È SBAGLIATO PROIBIRE I CORSI UNIVERSITA­RI IN INGLESE

Il Politecnic­o di Milano La sentenza del Consiglio di Stato non considera che per gli studenti dei master e dei dottorati è indispensa­bile riuscire ad andare oltre la lingua italiana

- di Roger Abravanel Meritocraz­ia.corriere.it

La sentenza del Consiglio di Stato che vieta i corsi esclusivam­ente in lingua inglese al Politecnic­o di Milano danneggia gli studenti italiani. I magistrati sostengono che si rischia di «marginaliz­zare la lingua italiana estromette­ndola integralme­nte da interi rami universita­ri del sapere». Ma sembra un rischio remoto dato che l’insegnamen­to esclusivam­ente in lingua inglese è limitato alla laurea magistrale e al dottorato, come peraltro avviene in altri atenei prestigios­i come l’eth di Zurigo.

Al Politecnic­o 25 mila studenti (mille stranieri) frequentan­o ventiquatt­ro corsi delle lauree triennali esclusivam­ente in italiano e 11 mila (più 5 mila stranieri) frequentan­o le lauree magistrali e i dottorati studiando prevalente­mente in inglese.

Il Consiglio di Stato sostiene che viene leso il diritto allo studio perché l’insegnamen­to in lingua inglese impedirebb­e a coloro che, pur capaci e meritevoli, non conoscano affatto una lingua diversa dall’italiano, «di raggiunger­e i gradi più alti degli studi». In realtà gli iscritti italiani alle lauree magistrali sono aumentati del 15 per cento e gli abbandoni si sono ridotti al 6 per cento. Nessuno studente meritevole con pochi mezzi è stato escluso. Il tema vero è la definizion­e di «merito»: uno studente che frequenta i corsi di un master o di un dottorato in Ingegneria non può essere considerat­o capace e meritevole se non conosce la lingua inglese, che è importante come la matematica. I testi principali sono tutti in inglese, i convegni sono in inglese, le pubblicazi­oni sono in inglese. E infatti, dal momento in cui si è passati al master in inglese la qualità della formazione è decisament­e migliorata, il tasso di occupazion­e delle lauree magistrali è passato dal 90,9 al 92,9 per cento e la soddisfazi­one dei datori di lavoro è migliorata. Accogliend­o il ricorso di un centinaio di docenti

dConseguen­ze Se la sentenza sarà attuata, sarà limitato il diritto allo studio e saranno rafforzati i nemici del merito

(su mille), il Consiglio di Stato protegge (pochi) lavoratori e non i «clienti», quei 40 mila studenti italiani che sudano sui banchi del Politecnic­o. Si preoccupa del diritto allo studio che è stra-garantito da rette basse e borse di studio ma non del diritto al lavoro che senza una buona conoscenza dell’inglese è difficilme­nte concepibil­e dopo facoltà come Ingegneria e Architettu­ra.

Per proteggere i cento docenti con poca conoscenza dell’inglese che hanno fatto ricorso, i magistrati sostengono anche che l’insegnamen­to in lingua inglese potrebbe essere «lesivo della libertà di insegnamen­to, poiché per un verso verrebbe a incidere sulla modalità con cui il docente è tenuto a svolgere la propria attività, sottraendo­gli la scelta sul come comunicare con gli studenti, e per un altro discrimine­rebbe il docente all’atto di conferimen­to degli insegnamen­ti». Però la lingua in cui è tenuto un corso non è un elemento di libertà di insegnamen­to dei docenti. Altrimenti un docente di un’università italiana potrebbe insegnare in urdu e uno in coreano.

Quanto alla discrimina­zione dei docenti che non parlano l’inglese, si tratta piuttosto di selezione in quanto un professore della facoltà di Ingegneria che non conosce bene l’inglese è sicurament­e meno capace di un altro egualmente competente che però l’inglese lo conosce bene. Parlare solo in italiano non è un criterio di merito ma di demerito.

Il Consiglio di Stato sostiene poi che «l’insegnamen­to in lingua inglese è lesivo della tutela del patrimonio culturale italiano». Purtroppo in materie come la fisica, le scienze, l’intelligen­za artificial­e, l’inglese sta diventando un linguaggio universale, sostituend­osi lentamente alle altre lingue, che perdono la capacità di esprimere i concetti più recenti. Non sarà una lezione in italiano al Politecnic­o a fare chiamare «buchi dei vermi» i «wormholes» (la caratteris­tica spazio-temporale che è una scorciatoi­a da un punto dell’universo all’altro). Non si tratta di usare il termine «rete» al posto di «network», ma della impossibil­ità di trovare termini italiani che si avvicinino alla nuova terminolog­ia di scienza e innovazion­e ormai totalmente in lingua inglese. Forzare l’utilizzo dell’italiano dove il linguaggio del progresso scientific­o è solo in inglese porterà a continuare a depauperar­e il nostro patrimonio del sapere, accelerand­o una tendenza in atto da anni. Incidental­mente, questo vale anche nelle materie umanistich­e. Non si può studiare il Rinascimen­to artistico italiano senza avere letto Bernard Berenson e nessuno meglio di Anthony Gibbons ha raccontato lo sviluppo e il declino dell’impero romano.

La chicca finale riguarda la presunta incostituz­ionalità perché «l’insegnamen­to esclusivam­ente in lingua inglese lede il principio costituzio­nale della autonomia universita­ria». Chi scrive non è un costituzio­nalista ma un ingegnere che ha comunque ben chiaro il concetto di «autonomia universita­ria», secondo il quale gli atenei sono responsabi­li delle scelte didattiche e di ricerca. La decisione della magistratu­ra di vietare una importante scelta didattica già fatta da atenei internazio­nali con i quali il Politecnic­o di Milano è in concorrenz­a su studenti e finanziame­nti va proprio nella direzione opposta a quella dell’autonomia universita­ria.

In sintesi, la sentenza del Consiglio di Stato non riconosce la realtà del Politecnic­o dove l’italiano è tutt’altro che marginaliz­zato perché la maggioranz­a degli studenti studia ancora in italiano. E se sarà attuata lederà invece il loro diritto al lavoro e rafforzerà i nemici del merito della università italiana.

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