Costi, disfunzioni e pigrizia: non è un Paese per Pec
Un mese fa un professionista milanese viene convocato dall’agenzia delle Entrate e invitato a presentare una documentazione entro dieci giorni. Pensando fosse il metodo più rapido e sicuro, decide di inviare tutto il materiale attraverso la Pec. Dopo due settimane si presenta in via della Moscova 2, e scopre che i documenti non erano mai arrivati. «Ah, qua la Pec la apre un dirigente ogni sei mesi», si sente rispondere. «Mi raccomando, la prossima volta mandi tutto via email normale, se no qui non arriva niente». Questa storia, e quella della Pec, sono lo specchio perfetto di come funziona la Pubblica amministrazione in Italia. Introdotta dal decreto del presidente della Repubblica n.68 del 11/02/2005 per sostituire digitalmente le raccomandate, aveva 6 obiettivi: il valore legale della mail, l’integrità del contenuto, la certificazione dell’invio e della consegna, la certezza dell’identità di mittente e destinatario. Una buona idea, ma pressoché ignorata. Pensando di dare un’accelerata, nel 2009 l’allora ministro per la Pubblica amministrazione e l’innovazione, Renato Brunetta, decide di lanciare un progetto parallelo, la Cec-pac: una casella di posta certificata e gratuita per comunicare con la Pubblica amministrazione. Gli obiettivi erano ambiziosi: attivare almeno 10 milioni di caselle nel primo anno. Nel 2014 le caselle aperte erano appena 2.121.915. Di queste, l’82% non aveva mai inviato messaggi. I costi, invece, erano alti: 19 milioni di euro. Così viene avviata la dismissione, e dal 18 settembre 2015 sono stati cancellati tutti gli account esistenti. Mentre l’esperimento di Brunetta partiva (e poi falliva), il decreto n.185 del 2008 redatto dal ministero di Giustizia — all’epoca presieduto da Angelino Alfano — aveva già stabilito che la Pec, quella originale, sarebbe diventata obbligatoria a partire dal 1° luglio 2013 per tutte le comunicazioni fra cittadini, imprese e Pubblica amministrazione, sostituendo definitivamente la raccomandata in forma cartacea. Il servizio sarebbe stato a pagamento, tramite gestori privati iscritti a un elenco pubblico e monitorati. Oggi aprire una Pec costa da 2 a 75 euro, a seconda dello spazio di archiviazione e dei servizi offerti, ed è anche obbligatorio per imprese e professionisti comunicare il proprio indirizzo certificato agli ordini professionali e al registro delle imprese. Stavolta le cose sono andate meglio: secondo i dati resi pubblici dall’agenzia per l’italia digitale lo scorso ottobre, il numero di caselle attive era arrivato a 8.852.174, mentre risultavano 271.161.064 messaggi inviati. Ci sono voluti 12 anni, abbiamo buttato via un po’ di soldi, ma finalmente il sistema funziona. L’altra faccia della medaglia è l’analfabetismo digitale dei dipendenti della Pubblica amministrazione, spesso in là con gli anni, e affetti da pigrizia cronica. Non solo l’agenzia delle Entrate, anche alla Consob non smaniano: all’impresa richiedono che i documenti vengano mandati via Pec, ma anche in forma cartacea. Immaginiamo per evitare di stampare o scansionare il materiale ricevuto. L’agenzia per l’italia digitale effettua controlli sui gestori, ma non ha compiti di vigilanza sul comportamento della Pubblica amministrazione. Spetta al cittadino far valere i propri diritti. La morale di questa storia è che nei palazzi romani, molto spesso, la mano destra non parla con la sinistra, mentre negli uffici pubblici gli amministrativi non parlano con la tecnologia. Qualcuno ha calcolato l’impatto economico derivante dal risparmio di tempo nella gestione delle pratiche? Quante cartelle pazze nascono da una mancata padronanza informatica? Quanti processi non finirebbero in prescrizione se nelle Procure e tribunali il personale amministrativo avesse maggiore dimestichezza digitale? Allora assumete i nativi digitali, e magari dentro quegli uffici le pratiche marceranno meglio e più velocemente.