Corriere della Sera

LEADER, PARTITI, PROMESSE LA FIERA DELLE IPOCRISIE

Verso il voto Sono troppe le dichiarazi­oni dei nostri politici in cui palesement­e loro stessi non credono, ma che non esitano a proporre ai cittadini-elettori

- Di Stefano Passigli

Ispirandos­i al grande romanziere vittoriano William Thackeray, e alla sua descrizion­e della società inglese del primo Ottocento come una «Fiera delle vanità», un attento osservator­e della nostra classe politica e di questa campagna elettorale dovrebbe parlare di «Fiera delle ipocrisie». Troppe infatti sono le affermazio­ni dei nostri leader in cui palesement­e essi stessi non credono, ma che non esitano a proporre agli elettori.

Un primo esempio è dato dai programmi elettorali dei maggiori partiti, pieni di promesse implicanti una spesa fuori controllo, incompatib­ile con il nostro debito pubblico e i nostri impegni europei. «Mal comune», ma in questo caso senza alcun «mezzo gaudio», dato che a questo primo caso se ne accompagna­no numerosi altri.

Berlusconi e Renzi, ad esempio, negano quasi giornalmen­te qualsiasi propension­e a rinnovare quel Patto del Nazareno da molti considerat­o un «inciucio». Ma Berlusconi rifiuta alla Meloni un esplicito impegno a non dar vita a governi di grande coalizione, e si prepara a fare della candidatur­a Tajani e degli impegni europei l’alibi per partecipar­e a simili governi. Renzi dal canto suo nega di essere pronto ad un nuovo patto con FI, ma ribadisce la legittimit­à di sostenere un governo di grande coalizione se necessario. Se «inciucio» non vi sarà, non sarà per volontà di Renzi e Berlusconi ma perché i due non avranno la maggioranz­a in Parlamento.

Gli esempi abbondano. Prodi invita a votare «Insieme», e sembra indicare che un voto per tale lista alleata del Pd non sia un voto per Renzi. Non è così. Non tutti sanno che se una lista non raggiunge l’1% i suoi voti vanno persi, ma che se ottiene più dell’1% ma meno del 3% quei voti si aggiungono a quelli degli altri partiti della coalizione che hanno superato la soglia; nella fattispeci­e al Pd. Prodi ha dato il suo endorsemen­t a Gentiloni augurandos­i

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Conti che non tornano I programmi sono pieni di impegni incompatib­ili con il nostro debito pubblico

la sua permanenza al vertice del Governo. Lodevole intenzione, e condivisib­ile. Ma non condivisa da Renzi. E purtroppo votare «Insieme» che non raggiunger­à il 3% è votare Renzi. Non così votare la lista «+Europa» della Bonino, che gli ultimi sondaggi indicano poter superare il 3%, e quindi in grado di svincolars­i da una sudditanza dal Pd renziano. Al punto di mostrarsi già pronta ad una grande coalizione col centrodest­ra, avendo del resto già avuto con Berlusconi passati proficui rapporti. Altro esempio di incoerenza è il ritornello sul voto utile di Renzi («chi vota D’alema vuole Salvini a Palazzo Chigi»), dimentican­do che proprio Renzi ha rifiutato di includere nella legge elettorale il voto disgiunto che avrebbe permesso accordi nei collegi uninominal­i tra il Pd e LEU. Se il centrosini­stra non è competitiv­o Renzi non può lamentarsi: «chi è causa del suo mal pianga se stesso».

Il massimo dell’ipocrisia si tocca con l’effetto perverso del combinato disposto tra pluricandi­dature e alternanza di genere nelle liste. Molti pluricandi­dati — uomo o donna che siano — corrono infatti in quattro o cinque collegi plurinomin­ali e sono seguiti nelle liste da candidati dell’altro sesso. Poiché saranno eletti in

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Rischio astensioni­smo Il 5 marzo nessuno potrà eventualme­nte lamentarsi di una bassa affluenza alle urne

un solo collegio, gli elettori degli altri collegi votando una donna eleggerann­o un uomo e viceversa. Un’astuzia per affidare al caso il raggiungim­ento della parità di genere? O un’altra maniera per spogliare gli elettori di qualsiasi reale possibilit­à di decidere? Vi è di più: il pluricandi­dato se eletto in più collegi si vedrà assegnato al collegio dove ha ricevuto meno voti, rendendo così difficile valutare prima dei risultati dove verrà eletto. L’elettore insomma non solo non può scegliere il proprio rappresent­ante a causa delle liste bloccate, ma non sa nemmeno chi il suo voto in effetti eleggerà. Un sistema a forte rischio di incostituz­ionalità, che comunque deresponsa­bi- lizza gli elettori e incoraggia l’astensioni­smo.

Che dire infine delle tante dichiarazi­oni rispettose della prerogativ­a del Presidente della Repubblica di nominare il Presidente del Consiglio, salvo poi indicare che il Capo dello Stato dovrebbe nominare il leader del primo partito (in voti? in seggi?), laddove chiunque abbia un minimo di conoscenza della nostra costituzio­ne materiale ben sa che i Presidenti hanno sempre affidato l’incarico non necessaria­mente al leader del maggiore partito, ma a chi meglio può formare una solida alleanza di governo. Nel salire al Quirinale Di Maio non ignora certo questa costante della nostra vita istituzion­ale, ma sfrutta la ribalta del Colle per mandare il rassicuran­te messaggio che il M5S è pronto a far parte di maggioranz­e e a smentire quello splendido isolamento che invece ancora prospetta ai suoi elettori.

In conclusion­e, assistiamo a una campagna elettorale confusa e priva di programmi attendibil­i sui quali gli elettori possano chiamare gli eletti a rispondere degli impegni assunti. Una campagna che mostra la poca qualità di tutti i leader dei nostri maggiori partiti.

Come lamentarsi il 5 marzo di una bassa affluenza alle urne e della difficoltà di formare un governo? E soprattutt­o come lamentarsi se l’esito finale determinat­o da una pessima legge elettorale sarà un governo di scopo affidato — in nome della continuità — a Paolo Gentiloni? In mancanza di una stabile maggioranz­a, di tutte le possibili soluzioni questa sarà se non l’unica certo la migliore.

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