LEADER, PARTITI, PROMESSE LA FIERA DELLE IPOCRISIE
Verso il voto Sono troppe le dichiarazioni dei nostri politici in cui palesemente loro stessi non credono, ma che non esitano a proporre ai cittadini-elettori
Ispirandosi al grande romanziere vittoriano William Thackeray, e alla sua descrizione della società inglese del primo Ottocento come una «Fiera delle vanità», un attento osservatore della nostra classe politica e di questa campagna elettorale dovrebbe parlare di «Fiera delle ipocrisie». Troppe infatti sono le affermazioni dei nostri leader in cui palesemente essi stessi non credono, ma che non esitano a proporre agli elettori.
Un primo esempio è dato dai programmi elettorali dei maggiori partiti, pieni di promesse implicanti una spesa fuori controllo, incompatibile con il nostro debito pubblico e i nostri impegni europei. «Mal comune», ma in questo caso senza alcun «mezzo gaudio», dato che a questo primo caso se ne accompagnano numerosi altri.
Berlusconi e Renzi, ad esempio, negano quasi giornalmente qualsiasi propensione a rinnovare quel Patto del Nazareno da molti considerato un «inciucio». Ma Berlusconi rifiuta alla Meloni un esplicito impegno a non dar vita a governi di grande coalizione, e si prepara a fare della candidatura Tajani e degli impegni europei l’alibi per partecipare a simili governi. Renzi dal canto suo nega di essere pronto ad un nuovo patto con FI, ma ribadisce la legittimità di sostenere un governo di grande coalizione se necessario. Se «inciucio» non vi sarà, non sarà per volontà di Renzi e Berlusconi ma perché i due non avranno la maggioranza in Parlamento.
Gli esempi abbondano. Prodi invita a votare «Insieme», e sembra indicare che un voto per tale lista alleata del Pd non sia un voto per Renzi. Non è così. Non tutti sanno che se una lista non raggiunge l’1% i suoi voti vanno persi, ma che se ottiene più dell’1% ma meno del 3% quei voti si aggiungono a quelli degli altri partiti della coalizione che hanno superato la soglia; nella fattispecie al Pd. Prodi ha dato il suo endorsement a Gentiloni augurandosi
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Conti che non tornano I programmi sono pieni di impegni incompatibili con il nostro debito pubblico
la sua permanenza al vertice del Governo. Lodevole intenzione, e condivisibile. Ma non condivisa da Renzi. E purtroppo votare «Insieme» che non raggiungerà il 3% è votare Renzi. Non così votare la lista «+Europa» della Bonino, che gli ultimi sondaggi indicano poter superare il 3%, e quindi in grado di svincolarsi da una sudditanza dal Pd renziano. Al punto di mostrarsi già pronta ad una grande coalizione col centrodestra, avendo del resto già avuto con Berlusconi passati proficui rapporti. Altro esempio di incoerenza è il ritornello sul voto utile di Renzi («chi vota D’alema vuole Salvini a Palazzo Chigi»), dimenticando che proprio Renzi ha rifiutato di includere nella legge elettorale il voto disgiunto che avrebbe permesso accordi nei collegi uninominali tra il Pd e LEU. Se il centrosinistra non è competitivo Renzi non può lamentarsi: «chi è causa del suo mal pianga se stesso».
Il massimo dell’ipocrisia si tocca con l’effetto perverso del combinato disposto tra pluricandidature e alternanza di genere nelle liste. Molti pluricandidati — uomo o donna che siano — corrono infatti in quattro o cinque collegi plurinominali e sono seguiti nelle liste da candidati dell’altro sesso. Poiché saranno eletti in
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Rischio astensionismo Il 5 marzo nessuno potrà eventualmente lamentarsi di una bassa affluenza alle urne
un solo collegio, gli elettori degli altri collegi votando una donna eleggeranno un uomo e viceversa. Un’astuzia per affidare al caso il raggiungimento della parità di genere? O un’altra maniera per spogliare gli elettori di qualsiasi reale possibilità di decidere? Vi è di più: il pluricandidato se eletto in più collegi si vedrà assegnato al collegio dove ha ricevuto meno voti, rendendo così difficile valutare prima dei risultati dove verrà eletto. L’elettore insomma non solo non può scegliere il proprio rappresentante a causa delle liste bloccate, ma non sa nemmeno chi il suo voto in effetti eleggerà. Un sistema a forte rischio di incostituzionalità, che comunque deresponsabi- lizza gli elettori e incoraggia l’astensionismo.
Che dire infine delle tante dichiarazioni rispettose della prerogativa del Presidente della Repubblica di nominare il Presidente del Consiglio, salvo poi indicare che il Capo dello Stato dovrebbe nominare il leader del primo partito (in voti? in seggi?), laddove chiunque abbia un minimo di conoscenza della nostra costituzione materiale ben sa che i Presidenti hanno sempre affidato l’incarico non necessariamente al leader del maggiore partito, ma a chi meglio può formare una solida alleanza di governo. Nel salire al Quirinale Di Maio non ignora certo questa costante della nostra vita istituzionale, ma sfrutta la ribalta del Colle per mandare il rassicurante messaggio che il M5S è pronto a far parte di maggioranze e a smentire quello splendido isolamento che invece ancora prospetta ai suoi elettori.
In conclusione, assistiamo a una campagna elettorale confusa e priva di programmi attendibili sui quali gli elettori possano chiamare gli eletti a rispondere degli impegni assunti. Una campagna che mostra la poca qualità di tutti i leader dei nostri maggiori partiti.
Come lamentarsi il 5 marzo di una bassa affluenza alle urne e della difficoltà di formare un governo? E soprattutto come lamentarsi se l’esito finale determinato da una pessima legge elettorale sarà un governo di scopo affidato — in nome della continuità — a Paolo Gentiloni? In mancanza di una stabile maggioranza, di tutte le possibili soluzioni questa sarà se non l’unica certo la migliore.