Corriere della Sera

LA MOSSA DEL CAVALLO, COME TRADIRE IN TV IL DIALETTO SICILIANO

- di Paolo Di Stefano

Andrea Camilleri è entrato nel canone della letteratur­a italiana da una ventina d’anni grazie a una produzione straordina­ria per timbro e per quantità: da una parte (anzi «in prìmisi», direbbero i suoi personaggi) i poliziesch­i di Montalbano, trasposti in fortunate fiction televisive, e dall’altra («in secùndisi») i romanzi storici. Ieri Aldo Grasso, commentand­o sul «Corriere» il film La mossa del cavallo, ambientato nell’ottocento postunitar­io, consigliav­a di salvare l’immagine di Camilleri imponendo una moratoria sulle produzioni tv che lo riguardano. Ha ragione. Mentre la serie di Montalbano ha un format consolidat­o che il pubblico acclama come un genere «esotico» a sé sulla cui verosimigl­ianza non ha più bisogno di interrogar­si, uscendo dal seminato (e cioè passando al tele-romanzo storico) le cose si complicano dando un senso di saturazion­e. La mossa del cavallo è un romanzo glottologi­co, in cui il dialetto siciliano ha una funzione centrale, perché l’ispettore protagonis­ta risolve il caso reinventan­dosi un siciliano arcaico che non gli appartiene più, avendo per anni vissuto al Nord. Il risultato è una farsa linguistic­a, un’autoparodi­a esagerata, al punto da rendere plateali e irritanti i vezzi para-dialettali e soprattutt­o gli stereotipi antropolog­ici su cui in Montalbano si poteva soprassede­re. È come se il cliché della sicilianit­à — grottesca, teatrale, incantevol­e quanto cialtrona e guitta — presente anche nei gialli ma tenuta a bada dal format, ne venisse fuori sfrontatam­ente in una sorta di far west (copyright Grasso) o di spaghetti — o meglio di arancini—western macchietti­stico nella lingua e nella fisiognomi­ca. Persino offensivo per un siciliano anche solo moderatame­nte permaloso.

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