Il gusto dell’avanguardia in una saga britannica
Caryl Churchill, nata nel 1938, viene da tempo considerata uno dei maggiori drammaturghi di lingua inglese. In Italia la si conosce ben poco. Avevo visto un lontano nel tempo Abbastanza sbronzo da dire ti amo? con Carlo Cecchi e Three more spleepless night di Lorenzo Lavia. Avevo invece letto ma poi non visto Caffettiera blu, un atto unico di Giorgina Pi. Chi è Giorgina Pi? L’ho vista un attimo nell’intervallo di Settimo cielo: una produzione Angelo Mai, un centro sociale (produttori anche Teatro di Roma e Teatro di Sardegna). I centri sociali li vediamo sempre scrutati da occhiuti estimatori del nostro benessere politico.
A me che un centro sociale abbia offerto uno spettacolo del calibro di Settimo cielo sembra un evento straordinario. Se gli occhiuti osservatori guardassero con attenzione Settimo cielo dovrebbero metterlo nel conto. In quanto a Giorgina Pi, è una regista di valore assoluto. Come per Caffettiera blu, ero sul punto di non vedere neppure questo spettacolo, per una serie di circostanze, una delle quali la lettura della commedia.
Al Teatro India mi ha spinto Gianluca Ferrato, l’interprete di Truman Capote. Vai, ha detto. Non lo puoi perdere. Ma perché Settimo cielo di per sé non era sufficiente? Il limite di Churchill è il tratto saliente della sua visione: lo humour. Cioè, lo humour britannico. Non è vero che Churchill sia un fenomeno unico e isolato. Perfino Alan Bennett le è parente. E retrocedendo per gradi e nel tempo si affacciano le ombre di Evelyn Waugh e soprattutto di Ronald Firbank. Il continuo slittare dall’ironia al sarcasmo, appena di profilo dietro la maschera dell’impassibilità, è la medesima nota di capolavori come Il cardinal Pirelli e Vanagloria. Naturalmente Churchill spinge più in là il suo discorso, fino all’elemento cruciale di ogni avanguardia, fino alla distruzione del linguaggio. Non solo: la sua critica «politica» non separa mai il luogo comune dal suo rovesciamento, nell’intreccio di dominio e sessualità. «È tuo marito? Ci vai d’accordo?». «Insomma. Sai, alti e bassi. Abbastanza, comunque. Sai, aiuta a lavare i piatti». Nel passaggio dal primo al secondo tempo — dall’africa del 1879 (e qui sentiamo il ronzio dei romanzi africani di Joyce Cary) alla Londra del 1979, dalle poltroncine rosse alle panchine su cui campeggiano le scritte: Anarchy in the UK e Avantgard Queer — i rapporti uomodonna sono identici: dentro i ruoli prestabiliti si giocano tutte le combinazioni: adulteri, scambi di coppia, amori tra donne e tra uomini, un ragazzino che chiede a un adulto di rifare ciò che una volta fu fatto. Si ride, anche. Ma di più si ammira come gli attori sono conciati (uomini in ruoli femminili, neri che non si distinguono dai bianchi, quel ragazzino vestito non si sa se da antico romano o da scozzese, con capelli tagliati come il giocatore della Lazio Luis Alberto). Si ammira come entrano in scena dal buio, con felpata eleganza. Si ammira come parlano, con allusiva disponibilità — a ogni impresa.