I primi tre anni del diritto all’oblio Rimossi 4 link ogni 10 richieste
Realizzati in tutto 1 milione di interventi. Le domande dall’italia sono state 190 mila
Alla ricerca dell’oblio perduto: nell’era di Google e della tirannia del presente le persone non vogliono più ricordare, ma essere cancellate dalla Rete. Non siamo in una puntata di «Black Mirror» ma in una vita sempre più quotidiana. Immaginate la «madeleine» di Proust: l’avete fatta cadere per terra e poi l’avete furtivamente raccolta e messa nuovamente sul piatto. Pensavate di averla fatta franca? L’algoritmo di Google lo può ricordare ossessivamente.
Deve essere stata questa la sensazione per i 2,4 milioni di cittadini-utenti che hanno chiesto l’esercizio di questo diritto da quando, nel maggio del 2014, è stato introdotto con la sentenza della Corte di giustizia europea a favore dell’imprenditore spagnolo Mario Costeja González (sembra un contrappasso dantesco del Purgatorio: «Voleva esser obliato ma il giudice che gli diede ragione lo condannò al ricordo eterno». Da allora tutti lo citano. La memoria come un disco rotto trasforma il passato in un perenne presente).
Per un milione e 40 mila europei la richiesta è stata accettata. È come se dalla mappa geografica fosse stata oscurata la Milano degli anni Cinquanta. A voler essere dimenticati sono soprattutto francesi, inglesi e tedeschi con metà delle richieste. L’italia è quinta dopo la Spagna con 190.643 richieste e 58.825 link «delistati» da Google (il 34,9% sul totale contro una media europea del 43%).
Fin dalla sua introduzione il diritto all’oblio ha fatto discutere. Innanzitutto va ricordato che riguarda le informazioni vere, tipicamente articoli di giornali, stralci di libri, informazioni storiche o sentenze.
Non stiamo parlando di fake news ma di true news. Inoltre deve riguardare il passato. Non è un caso che quasi 9 richieste su dieci vengano da individui. Per questo è stato trovato l’escamotage della deindicizzazione: la notizia è vera e rimane in Rete (per esempio una pagina di Wikipedia) ma non compare più tra i risultati di Google che, vale la pena ricordarlo, in Europa viene usato in oltre nove ricerche su dieci.
Le inevitabili storture sono diverse: 1) vale solo per l’europa; 2) la deindicizzazione avviene solo nel Paese della richiesta. In poche parole basta cercare google.fr per ritrovare ciò che google.it dovrebbe destinare all’oblio; 3) chi ha del denaro può pagarsi la «pulizia» grazie a società specializzate.
Oscar Wilde diceva: nessuno è tanto ricco da potersi riacquistare il passato. Oggi è stato ampiamente smentito dalla tecnologia. Se per i casi personali di individui senza rilevanza pubblica la richiesta di oblio può avere senso (nel caso di González era un pignoramento di 15 anni prima), la faccenda si fa molto più delicata per frammenti di fatti storici dove deve prevalere il dovere della memoria: pensate a cosa accadrebbe — per riprendere un tentativo reale — se tutti i partecipanti a un fatto di terrorismo degli anni Ottanta chiedessero e ottenessero l’oblio. Quel fatto verrebbe cancellato e per i giovani potrebbe non essere mai accaduto.
In un’epoca in cui la Rete e Google sono la principale fonte di informazioni e gli smartphone potrebbero entrare ufficialmente nelle scuole come strumenti di studio sarebbe come avere tanti libri di storia che cambiano a seconda della nazionalità dell’editore. Una volta li avremmo chiamati libri censurati. Cos’è
● Il «Diritto all’oblio» online, riconosciuto per la prima volta tre anni fa dalla Corte di giustizia europea, consente ai privati (nella sola Europa) di chiedere la rimozione di alcuni contenuti dai motori di ricerca
● Le notizie, in realtà, non vengono cancellate ma «deindicizzate» e cioè non compaiono più tra i risultati di Google se la ricerca viene fatta nel Paese dal quale proviene la richiesta