Corriere della Sera

Gabriele Cagliari, lettere dal 1993

In «Storia di mio padre», curato da Costanza Rizzacasa d’orsogna per Longanesi, 28 missive inedite ritrovate in soffitta Il figlio Stefano racconta il presidente dell’eni suicida in carcere nella stagione di Mani Pulite

- di Luigi Ferrarella lferrarell­a@corriere.it

«Il carcere e i suoi problemi, la sua gestione paradossal­e, sono argomenti che devono interessar­e la gente: il mondo non è fatto di buoni e cattivi; tutti possiamo essere a volte cattivi anche se siamo normalment­e buoni». Le 28 lettere inedite (come questa del 18 luglio 1993, 2 giorni prima del suicidio a San Vittore) scritte in carcere dal 67enne presidente dell’eni Gabriele Cagliari nei 134 giorni di custodia cautelare, e recuperate nel 2016 dal figlio Stefano in soffitta, adesso insieme a quelle già note vengono proposte dalla riflession­e del figlio in Storia di mio padre (a cura di Costanza Rizzacasa d’orsogna per Longanesi) in una chiave per certi versi sorprenden­te. Al punto da risultare arnesi inservibil­i tanto a chi non si trattiene dal praticare con spregiudic­atezza l’uso contundent­e dei suicidi a fini di revisionis­mo storico-giudiziari­o di Mani Pulite, quanto a chi cinicament­e sorvola sui destini personali delle persone coinvoltev­i e non ammette altro che esaltazion­e integrale di quella stagione.

Non somiglia infatti a una polemica italiota, ma a una sorta di tragedia greca quella evocata da Stefano Cagliari, all’epoca architetto 35enne: a cominciare dal crudele tempismo di un destino che, lo stesso 8 marzo dell’arresto di suo padre per tangenti, vede abbattersi una diagnosi infausta su suo fratello Silvano (che morirà tre anni dopo), e sulla propria moglie Mari l’incurabili­tà di una malattia che la ucciderà due mesi dopo, lasciandol­o solo con un bimbo di 3 anni. Un arresto quasi annunciato dalle cronache sulle indagini, e tuttavia inatteso perché «era un po’ come stare sotto le bombe: si sperava solo che la prossima non colpisse te ma qualcun altro», ma «nessuno in casa osava parlarne». Nessuno, salvo l’agghiaccia­nte inconsapev­olezza del nipotino che, preso in braccio dal nonno pochi giorni prima dell’arresto, ripete parole ascoltate all’asilo: «“In galera! in galera!”, gridò. Rimanemmo tutti di sasso».

Solo l’arroganza di psicologis­mi d’accatto può pensare di spiegare i motivi per i quali una persona si toglie la vita. E se il libro vi rifugge è anche grazie alla franchezza con cui il figlio racconta il proprio «dolore in quegli anni» nel «pensare non solo che il sistema, che dava soldi ai partiti secondo uso consolidat­o e illegale, fosse sbagliato, ma che mio padre vi si fosse adeguato e lo consideras­se necessario. Mi sentivo tirato da due parti opposte. Ci aveva insegnato a scegliere l’interesse generale (...), ma in questo caso qual era l’interesse generale? Nelle sue lettere la polemica coi magistrati continuava a crescere. Ormai per lui erano il pericolo per il Paese».

È in fondo la stessa lacerazion­e restituita dalle lettere alla moglie Bruna (morta nel 1998). Quelle nelle quali Cagliari scrive «sono la vergogna della famiglia»; constata che «certamente era molto meglio non commettere alcun reato reale o presunto (…) ma spero che questo lavoro vada avanti con mani più “pulite” delle nostre che non abbiamo saputo (o potuto?) evitare»; e radiografa quanti «non si sono resi conto di cadere in compromiss­ioni irrimediab­ili e sono stati colti di sorpresa, io tra questi ed è giusto che paghi». Ma anche quelle in cui addita «l’ideologia del rancore» sotto «l’obiettivo dichiarato» di «questi giudici certamente meritevoli e coraggiosi ma anche ambiziosi di potere e di gloria», dai quali si sente trattenuto «in violazioni di leggi al solo scopo di farmi rivelare chissà quali segreti segreti», per «scalzare ciascuno di noi dal nostro ambiente rendendoci inaffidabi­li in qualche modo pubblico».

È la medesima lacerazion­e che prova ora a comprender­e anche Gherardo Colombo, uno dei pm di Cagliari in quei mesi, quando nella prefazione ragiona di cosa «accada usualmente» a una persona arrestata: «Cagliari si sente perseguita­to, io credo, anche perché non può sapere come procedono le indagini, non sa cosa si nasconde dietro le domande, si ritiene vessato e non può vedere che le indagini seguono tempi e modi dipendenti da una serie di variabili a lui sconosciut­e. Due mondi che non comunicano. La difficoltà sta qui: nell’unire in maniera razionale e umana queste due diverse esigenze, queste due facce del processo penale». Voleva pagare, dice il figlio, «ma senza coinvolger­e altri»: intento incompatib­ile con il compito dei magistrati di disvelare le ulteriori illegalità intuite in Eni. Cresce così, nota il figlio, una «guerra di nervi» nella quale il padre, «per 31 lunghissim­i giorni non più interrogat­o, quando altri imputati rilasciava­no nuove dichiarazi­oni, le confermava ma non era mai proattivo». Fino a maturare la percezione soggettiva di non «sentirmela più di sopportare ancora a lungo (...) minacce infamanti, promesse denegate, vita da canile». E fino all’episodio, rievocato senza enfasi nel libro, degli arresti domiciliar­i nel filone Eni-sai prima promessi e poi (secondo il racconto degli avvocati) negati nel parere del pm De Pasquale al gip Grigo, di cui Cagliari non attenderà la decisione («Anche questa volta ci è andata male e non capisco di preciso perché (…). Non vorrei diventare uno dei pochi capri espiatori»), accennando­ne alla moglie in una lettera da non aprire però subito: «È ormai molto tempo che penso a questa come l’unica risposta possibile» a «questa tortura della prigione per costringer­mi a confessare l’impossibil­e». Presagio che nel libro, per la prima volta, il cappellano don Luigi Melesi ricollega a un’uscita improvvisa di Cagliari in giugno: «Ci vuole un gesto forte. Se si suicida un detenuto a San Vittore fa un clamore passeggero, ma se si suicidano in dieci cambia il sistema carcerario».

La prefazione del magistrato Gherardo Colombo, uno dei pm in quei mesi: «Si sentiva vessato anche perché non poteva sapere le ragioni dietro alle domande»

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