Corriere della Sera

Il destino di Vittorio Emanuele III Successi e disastri del «re soldato»

Parte oggi in edicola con il quotidiano la serie sui protagonis­ti del primo conflitto mondiale Ebbe un ruolo importante nella Grande guerra, specie dopo Caporetto Ma poi si condannò alla rovina facendosi complice della dittatura fascista

- di Paolo Rastelli

«OBadoglio, Pietro Badoglio, ingrassato dal fascio littorio, col tuo degno compare Vittorio ci hai già rotto abbastanza i coglion…». Così cantavano nel 1944 i partigiani della brigata Carlo Rosselli (Giustizia e Libertà), mettendo nello stesso calderone ribollente di disprezzo il vecchio maresciall­o d’italia e il re Vittorio Emanuele III, colpevoli della catastrofe dell’8 settembre.

Per quanto riguarda il sovrano, allora 75enne (era nato l’11 novembre del 1869), l’ironia della sorte non avrebbe potuto essere più grande. Soprannomi­nato il «Re soldato» per il comportame­nto sobrio e dedito al dovere durante la Prima guerra mondiale, era poi diventato uno dei simboli della più grande sconfitta politico-militare di tutta la storia italiana e della bancarotta di un ventennio di regime fascista, al quale aveva consentito di impadronir­si dello Stato. Bersaglio di un odio forse superiore a quello tributato al Duce, Benito Mussolini, come hanno dimostrato anche di recente le polemiche per il ritorno in patria, nel dicembre del 2017, della salma ora tumulata nel santuario di Vicoforte (Cuneo), mentre Mussolini riposa tranquilla­mente nella tomba di Predappio, meta di pellegrina­ggi nostalgici senza che nessuno protesti più di tanto.

Un personaggi­o divisivo, dunque, e ancora in grado di risvegliar­e passioni anche violente. Appare quindi indovinata la scelta di far partire con una biografia di Vittorio Emanuele III, firmata dallo storico Pierangelo Gentile, il ciclo di volumi che il «Corriere della Sera» dedica ai personaggi, alle armi e alle tattiche della Grande guerra.

L’italia entrò nel primo conflitto globale soprattutt­o per l’opera congiunta di una minoranza rumorosa di interventi­sti e di un partito bellicista che ebbe nel sovrano e nella corte i suoi massimi esponenti, capaci di fare sponda con le ambizioni del governo, dell’epoca guidato da Antonio Salandra e con Sidney Sonnino titolare del ministero degli Esteri. Una parte della critica storica, a proposito delle roventi giornate che vanno dal 4 maggio (denuncia della Triplice Alleanza che univa l’italia alla Germania e all’austria-ungheria) al 24 maggio 1915 (inizio delle ostilità contro Vienna), ha parlato di un quasi-colpo di Stato, una specie di prova generale di quanto sarebbe poi successo nell’ottobre 1922 con la presa del potere da parte del fascismo.

Di certo ci fu una spinta da parte di governo e sovrano nei confronti di un Parlamento ancora in gran parte pacifista e neutralist­a. Ma non bisogna scordare che lo Statuto albertino del 1848, legge fondamenta­le del Piemonte risorgimen­tale e poi dell’italia sabauda, all’articolo 5 assegnava solo al re il potere esecutivo e così ne delineava le competenze: «Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra: fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazi­oni opportune».

L’articolo 5 fu forzato parecchio. Ma parlare di colpo di Stato, cioè di sovvertime­nto totale della legge, appare francament­e eccessivo. Del resto lo stesso Giovanni Giolitti, uomo simbolo dei neutralist­i, si rese conto che c’era poco da fare, come scrisse poi nelle sue memorie: «Io sono monarchico convinto e, se mi fossi messo a capo della maggioranz­a neutralist­a, sarebbe saltata la monarchia, e questo allora mi sembrava essere il guaio maggiore».

Una volta dichiarata la guerra, Vittorio Emanuele III divenne con la massima tranquilli­tà il primo soldato del Regno. Definizion­e agiografic­a, senza dubbio, e strumental­e alla sacralità di una figura regale in cui i fanti contadini, ancora in gran parte distanti dal sentirsi parte di una comguita pagine nazionale, potessero riconoscer­si. Ma sicurament­e con forti agganci alla realtà, vista la vita regolata, aliena da ogni sfarzo e protagonis­mo, nonché rispettosa delle gerarchie e delle attribuzio­ni del Comando supremo in mano a Luigi Cadorna, che il sovrano decise di condurre. Lunghi giri con la macchina fotografic­a, ispezioni, pasti frugali, udienze, lettura dei dispacci.

Ma quando fu il momento, con l’esercito italiano sconfitto a Caporetto, Vittorio Emanuele III seppe prendere in mano le redini del Paese, risolvendo la crisi politica se- alla sconfitta con l’incarico di formare il governo assegnato a Vittorio Emanuele Orlando e poi assicurand­o agli alleati, al convegno di Peschiera, che l’esercito italiano avrebbe continuato a battersi.

C’è una gustosa scenetta, descritta anche nel volume di Gentile, tra il re e il suo aiutante Solaro del Borgo, che si incontrano sul treno che riporta il sovrano da Roma al fronte: «Scortomi nel corridoio del vagone, Sua Maestà mi domandò in piemontese: “Cosa ca pensa?” (Cosa sta pensando?). Risposi: “Maestà, dop la pieuva a ven sempre el bel temp!” (Maestà, dopo la pioggia viene sempre il bel tempo). Lessi nei suoi occhi l’approvazio­ne; ed afferratom­i il braccio, disse: “A l’è parei ch’un dev pensé” (È così che si deve pensare)». Fu il suo momento più bello.

Interventi­sta

La decisione del 1915 trovò nel monarca e nell’ambiente di corte i suoi massimi fautori

Durante le ostilità Tenne una condotta regolata, aliena da ogni sfarzo, rispettosa delle competenze militari

 ??  ?? Il re Vittorio Emanuele III di Savoia (al centro con le mani in tasca) in visita alla centrale idroelettr­ica di Valformazz­a a metà degli anni Venti
Il re Vittorio Emanuele III di Savoia (al centro con le mani in tasca) in visita alla centrale idroelettr­ica di Valformazz­a a metà degli anni Venti

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