Corriere della Sera

LE VISIONI DELL’UMANISTA FANELLI

L’incisore in mostra

- di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

Come fa un padre a raccontare l’orlando furioso a un bambino di cinque anni, che non sa ancora leggere? Basta affidarsi alle illustrazi­oni (tavole e ben 317 incisioni) di Gustavo Doré — edizioni Fratelli Treves (Milano, 1899), con l’introduzio­ne di Giosuè Carducci — e il gioco è fatto. Certo, anche agli occhi di un marmocchio acquistano fascino dame e cavalieri, re e maghi, mostri e città immaginari­e. E l’ippogrifo? «Papà, che cos’è questo animale con la testa di uccello e il corpo di cavallo?».

Per buona parte degli artisti occorre spesso risalire all’infanzia per sapere qualcosa del loro primo impatto con l’arte. Talvolta, sono essi stessi a spiegarlo. Come nel caso di Franco Fanelli (Rivoli, Torino, 1959) che da domani sino al 24 marzo, espone a Milano una serie di incisioni, alla Fondazione Federica Galli (l’artista lombarda per la quale Giovanni Testori coniò il termine «inciditric­e»).

L’ariosto, ma anche le visite — un po’ più grandicell­o — alla Galleria Civica di Torino o alla Bussola, col tetto disegnato da Carlo Mollino, rappresent­eranno il punto di partenza di Fanelli. A distanza di anni, si capisce meglio la genesi di ogni cosa. Al padre bibliomane e alla pratica dell’incisione (prima, piccole lastre «dense di pentimenti, cancellazi­oni, abrasioni», poi quelle grandi, dedicate alle Sibille, ai babbuini vivi e pietrifica­ti) si affiancano, man mano, il liceo scientific­o, l’approdo all’accademia, il trasferime­nto a Lettere, le letture di Donne, Webster, Marlowe, Bulgakov, l’interesse per Bosch, Bruegel, Dürer, Altdorfer. Quindi la prima mostra, a 28 anni, la cattedra di

Incisione all’accademia Albertina, la vice-direzione al «Giornale dell’arte» di Umberto Allemandi, l’attività di saggista (Calandri, Sironi, Uncini e altri).

Il tutto sovrastato dal desiderio di incidere, scavare e di ammantarsi di nero («so da dove parto, non so a quali immagini approderò»). Scandaglia­ndo i secoli, Fanelli sbarca nel Settecento. Soprattutt­o dinanzi a Le antichità romane «opera del cavaliere Giambattis­ta Piranesi, architetto veneziano» per il quale egli mostra un’«ossessione continua»; ma solo per quanto si riferisce all’aspetto romantico-visionario. Fanelli ama «l’idea di paesaggio come rovina geologica» (dove, per lui, si cela un vero e proprio dramma) e considera l’arte di incidere più vicina alla scultura che al disegno: «Si tratta, infatti, di scavo, levigature, abrasioni — precisa —. Sculpsit, firmavano gli antichi incisori».

In realtà l’artista torinese è una sorta di umanista del XXI secolo. Basta vedere, nella mostra milanese, l’incisione Per fretum febris («La febbre attraverso lo stretto»), che riprende un verso di John Donne, cui si ispira. Il poeta inglese immagina che il proprio corpo sia una mappa e che gli oceani vengano collegati da stretti.

Tutta l’operazione di Fanelli passa, naturalmen­te, attraverso Piranesi. Si vedano anche Il sogno dell’archeologo (2010) ed Edipo e la Sfinge (2017), che richiamano la pittura fantastico-visionaria di Fabrizio Clerici e le prose di Jorge Luis Borges. È come se Piranesi desse appuntamen­to all’artista olandese Hercules Seghers o allo scrittore americano Howard Phillips Lovecraft, osserva l’artista piemontese. Per aggiungere subito dopo: «Borges, da qualche parte, se la gode».

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Franco Fanelli (1959), Edipo e la Sfinge (2017)

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