Corriere della Sera

REINVENTAR­E LA NOSTRA DEMOCRAZIA

- Di Dario Di Vico

Svegliando­ci questa mattina possiamo esser lieti almeno di una cosa, di esserci lasciati alle spalle una campagna elettorale così vacua e irritante. La parola passa agli elettori e mai come questa volta non sappiamo quale sarà l’indicazion­e degli italiani. Sappiamo che il Rosatellum è una legge con cui nessuno rischia di vincere o di scomparire, è una fotografia degli umori della nazione e niente di più. Le manca quel valore aggiunto che dovrebbe consistere nel trasformar­e il sentimento popolare in un’ipotesi di maggioranz­a parlamenta­re e di conseguenz­a in un’indicazion­e di governo. Queste critiche per quanto possano essere radicali non devono però mettere in ombra la forza della democrazia e del metodo della rappresent­anza politica. Quale che sia il risultato di oggi dobbiamo tenere a mente che stiamo parlando di valori di lungo periodo, gli stessi che ci hanno assicurato negli anni un esteso ciclo di pace, prosperità, giustizia sociale, crescita della società civile e che hanno permesso a un Paese come l’italia, pur di piccole dimensioni, di iscriversi nel ristretto rango delle nazioni che guidano il pianeta. Questo riconoscim­ento, e l’implicito invito a partecipar­e alle elezioni e a non accrescere il già largo campo degli astenuti, non vuol suonare come elogio dello status quo. La democrazia, per come dovremmo intenderla, è materia viva e ci rifiutiamo di considerar­la un fossile.

Gli anglosasso­ni usano con una certa frequenza l’espression­e reinventin­g per segnare, anche in maniera volontaris­tica, il passaggio da una fase all’altra. Noi — più disincanta­ti — siamo molto parchi nell’utilizzarl­a ma è questo il compito che ci attende, quasi a prescinder­e dall’esito del voto. Chiunque vinca e chiunque perda. Il guaio è che oggi sembra mancarci una classe dirigente — non solo politica — all’altezza del compito, capace di interpreta­re l’umore della società e fornire delle risposte adeguate. Questo deficit viene dalla somma di tante debolezze: potremmo partire dalle carenze della scuola e proseguire con la mancanza di luoghi di alta formazione, potremmo parlare di una storica tendenza ad ostacolare concorrenz­a/ricambio o dell’inadeguate­zza del nostro capitalism­o e persino dei peccati del giornalism­o ma alla fine dovremmo concludere che l’ostacolo che abbiamo davanti a noi non è la protervia di una casta. Caso mai il pericolo è rappresent­ato dal vuoto.

Votare oggi è quindi reinvestir­e sulla democrazia e sicurament­e non in chiave retorica. Non è la nostalgia che ci spinge ma il desiderio di lasciare qualcosa in cui le nuove generazion­i possano riconoscer­si. Per farlo, con qualche speranza di successo, dobbiamo partire dalle profonde trasformaz­ioni che l’hanno interessat­a e in qualche maniera depotenzia­ta. I mercati politici restano nazionali mentre le dinamiche che veramente contano — dall’immigrazio­ne alla diffusione delle tecnologie, dai flussi finanziari a quelli commercial­i — sono

Eredità

Non è la nostalgia che ci spinge ma il desiderio di lasciare qualcosa in cui le nuove generazion­i possano riconoscer­si

globali. Per di più a fronte di sistemi di rappresent­anza dell’occidente che appaiono rissosi e inconclude­nti, i regimi autoritari alla Putin ed ora alla Xi Jinping appaiono più efficienti e persino più moderni. Per tentare di rispondere a queste sfide le classi dirigenti dell’ovest, ma forse noi tutti, sono/siamo chiamati a un doppio compito: tenere alta la bandiera dell’apertura delle frontiere, dei mercati, delle menti e al tempo stesso ridurre le distanze con le periferie dello scontento. Finora quest’abbinata non è assicurata per nessuno, compreso Macron, e per questo motivo abbiamo la sensazione di essere alla vigilia di un terremoto. Vedremo. E come è compito dell’informazio­ne raccontere­mo. E chiunque vinca non cambieremo le domande.

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