Corriere della Sera

ITALIANI GIANRICO CAROFIGLIO

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Lei però descrive i parlamenta­ri come tormentati dall’angoscia.

«Arrivano in Parlamento da assessori o sindaci; ritrovarsi a premere pulsanti induce frustrazio­ne. È un ciclo. I primi giorni provi una forma di euforia, cui segue una fase depressiva. Poi subentra l’abitudine. Infine si entra nel periodo nero».

Che storia ha la sua famiglia?

«Nonna Italia fu una delle prime siciliane laureate. Al liceo aveva allievi più grandi di lei. Era di Pachino ma abitava a Catania, a casa dei Brancati. Vitaliano, lo scrittore, era un bambino, nonna lo chiamava Talianuzzu. Poi sposò un poliziotto di Potenza e si trasferì a Bari».

E la famiglia paterna?

«Nonno Giovanni era capitano di navi, sempre in giro per il mondo. Uomo fortunato: durante la guerra andò per tre volte in licenza, e per tre volte la nave che comandava venne bombardata e affondata. I marinai cominciaro­no a chiedere la licenza quando la chiedeva lui».

Lei è stato campione di karate.

«Vinsi i regionali a Taranto, battendo in semifinale il campione locale: rischiai di affrontare pure gli spettatori. Poi sono stato due volte campione nazionale a squadre».

Com’era da ragazzo?

«Lo sfigato dei film. La violenza nasce sempre dall’inadeguate­zza. Ho accettato di combattere perché non ero abbastanza sicuro di me per girarmi e andarmene. All’inizio ci si diceva: “Andiamo nel portone”. Ma era solo lotta, sopraffazi­one. Ricordo bene la volta in cui passammo ai calci e ai pugni».

Si narra di un suo scontro con un fascista.

«Andò male per lui. Lì diventai famoso nella scuola. Magro magro, non avevo l’aria del picchiator­e; in realtà mi allenavo da anni. Lui invece aveva fama di duro. Finì in modo diverso da come si immaginava».

È vero che si è battuto con balordi che poi da magistrato ha fatto arrestare?

«È vero. Le palestre oggi sono posti più tranquilli, ma allora erano frequentat­e anche da soggetti che poi hanno commesso reati gravi: droga, mafia. Alcuni mi hanno riconosciu­to. L’avvocato di un mafioso mi portò dieci libri da dedicare. Un boss cui ho fatto dare 26 anni mi ha mandato i saluti. Vado spesso a presentare i romanzi nelle carceri».

La Bari della sua giovinezza era violenta.

«Ricordo scontri tra bande rivali di inaudita violenza. Negli occhi brillava una luce omicida. In una rissa a bottigliat­e prevalse un tipo basso, insignific­ante: il più cattivo. È incredibil­e fin dove possa scendere un essere umano. Ho pensato allo spettacolo orribile che devo aver dato io qualche volta».

Come ne è uscito?

«Le arti marziali mi hanno cambiato la vita. Mi hanno aiutato a convivere con il senso di inferiorit­à che avevo da ragazzino. Gli sport da combattime­nto sono metafore istruttive. Offrono molti spunti per decifrare le situazioni dell’esistenza».

Ha fatto a botte anche da magistrato?

«Ero pretore a Firenze. In due tentarono di rubare la borsetta a una collega, vicino al Duomo. Il primo mi disse: “Ti spezzo tutte le ossa” e mi si gettò contro. Lì mi sono ricordato dei vecchi insegnamen­ti: usa la forza del tuo avversario contro di lui. Se spinge, tiralo. Se tira, spingi. Così l’ho scaraventa­to in un bar, con un gran frastuono di tavoli rovesciati. I carabinier­i erano ammiratiss­imi. Mentre facevo la deposizion­e venivano a congratula­rsi: “Dotto’, ma la pistola ce l’aveva?”».

Aveva la pistola?

«L’ho avuta dopo, in tempi più difficili, quando mi occupavo di mafia. Ho vissuto sei anni sotto scorta».

Quanto conta la mafia in Italia?

«Molto meno di 25 anni fa. In alcune zone è stata sradicata in un modo che pareva impossibil­e. Nel ’91 ci furono 1.961 omicidi; nel 2016 solo 390. Siamo tra i Paesi più sicuri al mondo. Polizia e magistratu­ra sono tra le più efficaci».

Ma la mafia non è sconfitta.

«In alcune zone è ancora fortissima. Come in Calabria, per la natura molecolare della ‘ndrangheta. Capace di riprodursi ovunque».

Quanto conta la massoneria?

«Non lo so. Mi proposero di entrarci. Erano gruppi pittoresch­i, legati al passato. Forse non ho incontrato quelli davvero potenti».

Lei ha teorizzato l’arte dell’interrogat­orio.

«La premessa è il rispetto: stai inducendo qualcuno a fare una cosa che gli causerà anni di carcere. Devi attenuare il peso della colpa: mai dire “l’omicidio” o “lo stupro”, ma “il fatto”. Proiettare parte della responsabi­lità sull’esterno, i complici, il contesto sociale. E prospettar­e incentivi etici, come le attenuanti generiche. Trasmetter­e l’idea che parlare conviene».

Anche entrando in empatia con il colpevole?

«Sì. Empatia non significa essere d’accordo con chi ti sta di fronte, ma saper vedere le cose come chi ti sta di fronte. Ha a che fare pure con la politica e con la buona scrittura».

Com’è diventato scrittore?

«Stavo andando in ufficio. Davanti al teatro Margherita, chiuso da anni, immaginai in trenta secondi una storia. All’improvviso il senso della città era mutato. Ho percepito allora il cambiament­o sotterrane­o necessario per cominciare a scrivere. Sono stato il primo a pensare Bari come un luogo romanzesco».

Oggi Bari e la Puglia sono di gran moda.

«Modugno si vergognava di essere pugliese, si fingeva siciliano. Ora andiamo a ruba. È un posto interessan­te in cui succedono un sacco di cose. Merito anche di qualche amministra­tore. Vendola i primi 5 anni ha fatto bene».

Emiliano?

«Mi faccia un’altra domanda».

Non funziona così. Eravate amici.

«Andammo insieme in macchina a Roma a dare l’esame da magistrato. Sì, siamo stati amici. È stato deludente sul piano politico e sul piano personale. Non aggiungo altro».

Checco Zalone le piace?

«È molto intelligen­te. Tratta cose volgari senza essere volgare».

E Cassano, il calciatore?

«Ho arrestato suo cugino Giovanni, detto Giuan U Nane, specializz­ato nel calcio volante al petto con cui stendeva avversari alti mezzo metro più di lui».

A Bari si racconta che ancora di recente lei ne ha stesi tre…

«Mi aggrediron­o per strada. Balordi. Si avvicinaro­no, e non per parlare. Esercitai la legittima difesa: Salvini sarebbe fiero di me. Ma sono passati 15 anni».

È stata l’ultima volta che ha fatto a botte?

«Sì. Ho imparato a prevenire. Una sera un camionista ubriaco mi diede uno spintone. Mi spostai, cadde. Non lo toccai neanche».

Nel suo primo libro, «Testimone inconsapev­ole», racconta di un bambino scomparso. È vero che si ispirò a una sua antica indagine?

«Non fu una scelta. Era un fiume carsico che emergeva. Il senso terribile di frustrazio­ne che mi sono portato dietro per questo caso».

Quale caso?

«Un’indagine che prese una direzione errata. Era scomparsa una bambina, Maria Mirabela. Due poliziotte di origine rom sbagliaron­o a tradurre le intercetta­zioni. L’attenzione fu deviata sui genitori. Invece Maria era stata presa da qualcun altro, e soffocata in un tentativo di violenza».

Da chi?

«Feci sorvegliar­e il posto in cui avevamo trovato il corpo. I responsabi­li di reati sessuali spesso tornano sul luogo del fatto, per ricreare il senso di eccitazion­e della violenza, del dominio. Dopo qualche giorno trovammo uno che si masturbava. Era un medico. Lo interrogai per tutta la notte. Ci fu un momento in cui mi dissi: forse sto parlando troppo con lui. Feci perquisire il suo appartamen­to: tutto pulito. Stavamo per andarcene, quando notammo una stanza a fianco: era la casa degli orrori; secchi di urina, libri di magia nera. Credo che avesse abusato di altre bambine. Andò a giudizio per atti osceni, ma non riuscimmo a incastrarl­o per omicidio. Sono tuttora convinto che il colpevole fosse lui».

Il rapporto con Emiliano Io e Emiliano eravamo amici, andammo insieme in macchina a Roma a dare l’esame da magistrato: poi lui è stato deludente, sul piano politico e personale

Zalone e Cassano Checco Zalone è intelligen­te, tratta cose volgari senza essere volgare. Ho arrestato il cugino di Cassano, stendeva gli avversari col calcio volante al petto

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Autore Gianrico Carofiglio, 56 anni, capostipit­e del legal thriller in Italia

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