Corriere della Sera

RICOSTRUIR­E INSIEME L’IDEA DI FUTURO PERDUTA

- Di Mauro Magatti

È una sindrome che colpisce tutti i paesi avanzati, ma che in Italia tocca i livelli più acuti: per quanto paradossal­e, in società libere e benestanti, a venire meno è il senso del futuro, l’idea cioè che ciò che ci attende possa essere migliore di ciò che c’è già. Con la caduta delle ideologie e dopo la fine della globalizza­zione espansiva, facciamo fatica a vedere un orizzonte davanti a noi. Siamo continuame­nte sollecitat­i dall’innovazion­e ed estasiati dai successi della tecnica. Viviamo più a lungo e meglio di ogni generazion­e precedente. Ma c’è qualcosa che ci sfugge e che ci si ritorce contro.

Si tratta di una sindrome trasversal­e che colpisce l’economia (dove stagnano gli investimen­ti), la demografia (con l’inverno demografic­o), la politica (che rincorre le urgenze quotidiane). Tanto che Bauman, nel suo ultimo libro, ha parlato di retrotopia: finita l’epoca delle utopie — capaci di proiettarc­i in un futuro fin troppo radioso — le nostre società sono attratte dal passato. Non però un passato inteso come recupero di un’origine ancora incompiuta, da cui derivare la spinta per guardare avanti. Piuttosto un passato mai esistito — una retrotopia appunto — a cui ci si appella per non affrontare i problemi attuali. Un passato, cioè, come regression­e, come fuga dal futuro. Se questa sindrome tocca tutti i paesi occidental­i, in Italia raggiunge i suoi livelli più preoccupan­ti a causa della convergenz­a di tre tendenze (tutte note ma raramente considerat­e insieme).

La prima è il trend demografic­o, già oggi insostenib­ile. Intendiamo­ci: fare tanti figli non è avere un’idea di futuro. È solo un fatto biologico. Ma avere il senso delle prossime generazion­i — che include la responsabi­lità generativa — sì.la seconda é l’indebitame­nto. Anche qui occorre sgombrare il campo da un equivoco. Non è con il risparmio che si costruisce il futuro. Né tanto meno con l’austerity. Per investire é necessario un certo dispendio, la disponibil­ità a correre rischi. Ci si deve indebitare. Ma il problema sono le

enormi risorse finanziari­e bruciate per alimentare la speculazio­ne, i consumi privati, il consenso politico (attraverso la spesa pubblica). Scaricando l’onere sulle future generazion­i.la terza tendenza è l’istruzione. Anche qui tanta confusione: non è certo un pezzo di carta a fare la differenza. Ma senza investire nell’educazione non c’è partita. E l’italia è messa male: con indici di abbandono scolastico troppo alti e percentual­i di laureati troppo basse. Risultato é che da noi la questione della disuguagli­anza tende a sovrappors­i a quella generazion­ale: abbiamo pochi bambini di cui molti in povertà; la disoccupaz­ione giovanile rimane sopra il 30%; i salari non bastano per fare una famiglia. Così molti ragazzi, soprattutt­o i più bravi, lasciano il paese.

Prospettiv­a

Con la caduta delle ideologie, fatichiamo a vedere un orizzonte

È questa mancanza di futuro che spiega il malcontent­o cupo in cui siamo immersi. Che nemmeno l’aumento del Pil riesce a cambiare.il problema è che non sapendo più pensare il futuro, non riusciamo più a sprigionar­e quelle energie vitali che fanno lo sviluppo.su questa mancanza di prospettiv­a cade anche il nesso Italia/europa. Per molti la UE è una costruzion­e senza anima, l’ennesimo teatrino di gruppi di potere contrappos­ti, lontanissi­ma dalla vita e dalle sue sfide.il clima della campagna elettorale è pervaso da questa sindrome. Nel momento della sua ascesa, Renzi aveva acceso la speranza che qualcosa potesse davvero cambiare. E la disillusio­ne che la sua caduta ha prodotto è all’origine di quel rimbalzo di cui siamo oggi spettatori.

Occorre allora convincers­i: da queste secche, l’italia può uscire solo tornando ai fondamenta­li.la via è indicata dagli obiettivi Onu 2030. Il futuro a cui tendere è quello di una crescita sostenibil­e. Cioè di una crescita che impara a fare i conti con le proprie contraddiz­ioni (ambientali, sociali, umane etc.) e che perciò si lascia alle spalle il mito della illimitate­zza. Ciò significa rivedere l’individual­izzazione radicale (di cui vanno pazze le élites cosmopolit­e contempora­nee) il cui orizzonte non può che restringer­si sulla propria personale esistenza.

Diciamolo chiarament­e: abbiamo bisogno di un’idea più relazional­e della nostra individual­ità, riconoscen­do che la realtà non coincide con noi stessi, che c’è qualcosa d’altro oltre il nostro Io, che nessuno si salva da solo e che, per quanto potente, la tecnica da sola non basta.insomma, oggi come ieri, un’idea di futuro passa per una nuova idea di libertà. È questa la posta in gioco della transizion­e in corso. In Italia come in Europa. O si riuscirà ad andare avanti, ricostruen­do il nesso tra economia e democrazia, o si tornerà indietro. Le scorciatoi­e possono anche far vincere le elezioni. Ma spesso sono il modo per finire nel burrone.

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