Corriere della Sera

LA CIVILTÀ DEI GIORNALI NELLA BUFERA DELLA RETE

- Stefano Masino, Asti

Caro Aldo, ho visto «The Post» e mi sono commosso. Sarà forse per la visione di rotative e forme di stampi in piombo. Una frase del film mi ha colpito in particolar­e: «La stampa libera deve servire i governati, non chi governa». È una delle motivazion­i, ispirate ai Padri fondatori, con cui la Suprema Corte americana diede ragione al Washington Post e al New York Times nella causa contro il governo Nixon per la pubblicazi­one di documenti riservati sul finanziame­nto e sulla gestione della guerra in Vietnam. Talvolta, in chi legge i giornali, c’è la sensazione che tra potenti e giornalist­i vi siano troppi ammiccamen­ti.

Caro Stefano,

Una delle scene più belle è quella in cui Tom Hanks, che interpreta il direttore del Washington Post Ben Bradlee, guarda con un misto di rimpianto e rimorso la foto che ritrae lui e sua moglie accanto a John e Jacqueline Kennedy. Rimpianto perché il presidente è stato assassinat­o; rimorso perché il direttore si rimprovera l’eccessiva frequentaz­ione del potere. Una vicinanza però che non gli impedisce uno scoop politico destinato a metterlo sottosopra, il potere.

Anche il giornalism­o italiano deve fare autocritic­a. Ma non è storia solo di ombre. Il film di Spielberg e la sua lettera, caro Stefano, riportano agli anni 70: lo zenit della civiltà dei giornali. La tv non aveva il peso che avrebbe assunto, la rete — i cui danni alla vita pubblica e alle relazioni umane misureremo solo col tempo — era di là da venire. Mentre il Post e il New York Times si contendeva­no le carte del Pentagono, in Italia il Corriere viveva la grande stagione di Piero Ottone, Eugenio Scalfari fondava Repubblica, Indro Montanelli ed Enzo Bettiza chiamavano a collaborar­e al Giornale il meglio dell’intellighe­ntia liberale d’europa, da Raymond Aron a François Fejtö. L’intervista di Giampaolo Pansa a Enrico Berlinguer in cui il leader del Pci assicurava di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello Nato occupava mezza prima pagina e tutta la seconda: con lo stesso numero di caratteri oggi si stampa un intero quotidiano; di Berlinguer non c’era neppure una fototesser­a. È vero che ora i singoli articoli — condivisi, postati, twittati, linkati — circolano più di un tempo. Ma l’intervista più letta del 2017 è stata quella a Sofia Viscardi; la prima intervista «politica» è solo undicesima. La rete riduce tutto a frammenti, compresi i giornali; e chi legge un articolo su Facebook spesso non sa che sta leggendo un articolo. Un giornale è frutto di un lavoro collettivo, implica una visione delle cose, una gerarchia delle notizie, un sistema di valori: ricerca della verità, distanza critica dal potere, rispetto per le opinioni altrui. Questa è la civiltà dei giornali. Difenderla nell’era digitale sarà difficilis­simo, ma doveroso.

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