Vigo, la scrittura per immagini «Ho seguito il consiglio di Penn»
L’artista milanese e la lezione di Irving: il successo viene con il lavoro
C’era una volta una bambina milanese che rubava il Corriere alla madre per farsi un giornaletto con le lettere ritagliate dai titoli. Come per i più fortunati, era il segno inequivocabile di una vocazione potente a cui dedicare la vita. Quella bambina era Graziella Vigo, la cui passione negli anni ha subito una metamorfosi:
Graziella Vigo Nota sia in Italia che all’estero, ha all’attivo numerosi libri (tre sull’armenia) e 38 mostre di moda, teatro e ritratti
«Dopo la scuola di giornalismo a Milano, studiai lingue a Ginevra — dice lei —. Quando tornai, mi presero subito alla Rusconi. Ma erano altri tempi». Il suo compito? Seguire le sfilate a Parigi. «Non ne capivo nulla, ma piano piano rimasi affascinata da quelle sedie dorate sulla moquette grigia, da Yves Saint Laurent che da una scala spiava la sala prima della sfilata».
Poi Rizzoli la chiamò ad Annabella, dove rimase 8 anni come fashion editor. «Scrissi di moda maschile quando non voleva farlo nessuno. Con Armani, Ferré e Versace abbiamo condiviso gli esordi. Anni frenetici e meravigliosi. Ma a un certo punto non mi bastava più scrivere, volevo raccontare quegli abiti con le immagini. E viaggiare — racconta —. Passai le vacanze all’international Center of Photography di New York, la miglior scuola del mondo. Quando tornai, rifiutarono di farmi cambiare mestiere e io mi dimisi. Passai un altro anno all’icp a studiare moda e ritratti. Era quella la mia strada. Portai le mie foto di moda a Irving Penn, che in quegli anni era il più grande, cercando una conferma. Le guardò con calma, poi disse: “Scusa, ma tu cosa vuoi da me?”. “Non ho fiducia”. “La fiducia viene con il successo, il successo con il lavoro. Vai a casa e lavora”. Finì che nell’80, a Milano, aprii uno studio mio per fare moda: per pagarmi l’attrezzatura, non comprai vestiti per due anni. Chiamai gli amici stilisti: “Ragazzi, sono tornata”. “Cosa fai?”. “Quello che facevo prima, ma con le immagini”. Lavorai per tutti, una scuola incredibile. Pensare che tutti lo consideravano un mestiere da uomo: alle sfilate eravamo solo cinque fotografe, e io ero l’unica italiana».
La moda quasi come sport estremo, un acceleratore dei sensi. «Lavorare al buio, sul filo dei secondi, senza mai sapere cosa succederà. Cose che ti tengono sveglia la mente. Catturare la bellezza dà tensione, la stessa bellezza che ritrovo nelle facce della gente». Già, perché i ritratti («Portrait»), una delle due mostre che espone a Mia tra gli indipendenti, sono un’altra delle sue passioni. Dalla gente comune ai vip, tenendo a mente quel che le disse Andy Warhol mentre le concedeva un fugace ritratto newyorkese: «Remember: gli occhi e le mani dicono tutto!». Tanti ritratti raccolti per lavoro o per amicizia: Gregory Peck, walter Matthau, Kirk Douglas, Armani e Versace, Kim Basinger. «Una bella scuola di mondo. Sono stata due volte alla Casa Bianca e ho imparato le mille regole per fotografare un presidente, mentre l’attore è come
noi, spesso indifeso. Dipende dal rapporto che stabilisci». Alla fine è arrivato anche il ritratto a Riccardo Muti, a lungo inseguito («Maestro, manca solo lei»). «Mi invitò alla Scala. Quando vide la foto, disse: “Ok, fotografi quello che vuole, ma non mi distragga”. Pensavo di fermarmi due ore, invece rimasi due anni».
Nacque così l’altro grande progetto presentato a Mia, «Verdi on Stage», fotografie «verdiane» scattate nei teatri di tutto il mondo, con una sensibilità per la luce che ricorda i quadri di Vermeer e Caravaggio. «Merito di Mapplethorpe, mio maestro newyorkese. Ci portava al Metropolitan a studiare Rembrandt per ore. Invece a teatro speravo di essere invisibile, cercavo di catturare attimi fuggenti, espressioni, risate,
dL’esperienza in America Sono stata due volte alla Casa Bianca, ho imparato le regole per fotografare un presidente
movimenti del corpo che dopo un secondo erano svaniti».
Ma c’è un segreto: «La passione della mia vita è diventata il mio lavoro», dice la piccola giornalista che ritagliava il Corriere, «perché in fondo ho continuato a scrivere con la macchina fotografica. Ma una foto si fa con la memoria, la cultura, la sensibilità e l’emozione».
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