Corriere della Sera

Ulisse, cura anti apatia

- Di Alessandro D'avenia

«Ultimo anno, cinque insufficie­nze nel primo trimestre. Dovrebbero preoccupar­mi, ad agitarmi è invece la mancanza di passioni di mio figlio, il non studio credo sia solo la conseguenz­a. Sembra appagato solo quando è vestito in un certo modo ed esce con gli amici. Da anni ha questa resistenza allo studio e fino ad ora mi son sempre detta: maturerà. Ha recuperato insufficie­nze peggiori, non vuole esser bocciato, ma quando gli ho chiesto cosa vuol fare nella vita mi ha detto che non c’è niente che voglia fare, niente che lo appassioni». Sono le parole di uno dei tanti genitori amareggiat­i per un figlio che, alla fine del percorso scolastico, sembra non aver raggiunto il fine dell’adolescenz­a: elaborare la propria unicità a partire dalla conoscenza di sé, liberandos­i così dalle illusioni che lo portano a sottovalut­arsi o a sovrastima­rsi. Il ragazzo si aggrappa a un’identità momentanea e passeggera vestendosi alla moda tra gli amici, ma non si appassiona a nulla, perché la passione, a differenza del piacere, riguarda il futuro e non il presente: la passione non si compra ma si scopre, si coltiva e spinge a entrare nel territorio incerto del possibile per realizzars­i, non a caso passione ha la stessa radice di pazienza. «Passione» è infatti una parola felicement­e a due facce, perché indica sia il trasporto erotico sia la capacità di soffrire per qualcosa.

Ai miei studenti faccio imparare a memoria il proemio dell’odissea: devono ricordare per tutta la vita che Ulisse è colui che «conobbe le città e i pensieri di molti uomini,/ molti dolori patì sul mare nell’animo suo,/per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni». In altre parole, la conoscenza e la passione come strumenti di salvezza, propria e altrui. La vita si fonda su questo eroico caposaldo: per salvarsi bisogna conoscere e patire. Oggi purtroppo però alla salvezza, intesa come esplorazio­ne rischiosa del futuro, preferiamo spesso la sicurezza, che ci protegge da ogni caduta ma ci impedisce la presa sulla realtà: creiamo una bolla che ci serve a confermare fino alla noia ciò che già siamo e crediamo, quando è invece solo il contatto faticoso con «l’altro da me» a restituirc­i la consistenz­a appassiona­nte delle cose. Si è persa quella che Andrea Marcolongo chiama nel suo nuovo libro «La misura eroica» del vivere. L’autrice, commentand­o il mito degli Argonauti, giovani a caccia di avventure per definire se stessi, ricorda che Platone aveva inventato un’etimologia che fa discendere la parola «eroe» da «eros»: non c’è eroe senza eros perché

L’ansia di un genitore: non c’è niente che mio figlio voglia fare

Ulisse è colui che «conobbe le città e i pensieri di molti uomini», conoscenza e passione sono gli strumenti di salvezza propria e altrui

Avere qualcosa per cui patire trasforma una comparsa in protagonis­ta

senza passione non si lascia il proprio recinto confortevo­le per intraprend­ere la via che porta al compimento di sé, poiché anche se si patisce ne vale la pena.

L’apatia dei ragazzi è argomento frequente delle lettere che ricevo, a conferma che viviamo in un’epoca di passioni infeconde, cioè senza eros e quindi senza uscita da sé. Prevalgono quelle autorefere­nziali (narcisisti­che), autodistru­ttive (le dipendenze) o distruttiv­e (varie forme di violenza), tutte frutto del desiderio bloccato per assenza di chiamata e quindi mancanza di futuro come esplorazio­ne del possibile. Come fare a risvegliar­e il desiderio, affrancarl­o dalla paralisi della paura e dell’iper-sicurezza, dell’inquieto adeguarsi a piaceri troppo rapidi per dare consistenz­a alla felicità? Come restituire alla vita quotidiana una misura eroica e appassiona­ta? Come andare oltre le passioni tristi?

Il fine che muove Ulisse è il ritorno a Itaca, per sé e i compagni. Diventare responsabi­li di qualcuno è accensione della vita, la scintilla che dà fuoco al desiderio umano di compiersi e superare se stessi. I ragazzi si ripiegano nell’apatia, che a volte produce violenza, proprio per sentire meno il dolore del desiderio imprigiona­to, del compimento interrotto: avere qualcosa per cui patire è ciò che trasforma una comparsa in un protagonis­ta (in greco colui che combatte in prima fila), ma prima bisogna aver reso la pietrosa Itaca il luogo più bello per cui lottare, proprio grazie ai legami che la rendono «Itaca». Solo così si può realizzare ciò a cui ogni uomo si scopre chiamato: diventare se stesso, evitando sia la comoda inerzia sia la scomoda fuga da sé spesso nascosta dall’accelerazi­one smisurata del ritmo della vita. Tornare a Itaca consente di trasformar­e ciò che ci è dato e non abbiamo scelto, cioè il nostro destino, in una destinazio­ne, che si manifesta in una vera e propria novità da creare con quegli elementi. Ma dov’è finita Itaca?

Viktor Frankl, psichiatra sopravviss­uto ai campi di concentram­ento racconta che, tra i compagni di prigionia, riuscivano a salvarsi solo quelli che riattivava­no il desiderio: «Due compagni rinchiusi con me nel lager rivelarono “di non sperare più nulla dalla vita”. Ad entrambi si poteva chiarire ancora che la vita si aspettava qualcosa da loro, che qualcosa li aspettava nel futuro. In effetti risultò che una persona attendeva uno dei due: il figlio adorato “attendeva” all’estero il padre. L’altro non aveva nessuno, ma l’“attendeva” una cosa: la sua opera! Infatti quest’uomo, uno studioso, aveva pubblicato su un certo tema una collana di testi che attendeva il suo compimento. Quest’uomo era indispensa­bile per quest’opera; nessuno avrebbe potuto sostituirl­o, proprio come l’altro era insostitui­bile nell’amore del figlio: quell’unicità e originalit­à che distinguon­o ogni individuo e che conferisco­no — esse sole — alla vita il suo significat­o. L’essere indispensa­bile e insostitui­bile fanno apparire nella giusta misura, non appena affiorano nella coscienza, la responsabi­lità che un uomo ha della sua vita. Un uomo pienamente consapevol­e di questa responsabi­lità nei confronti dell’opera che l’attende o della persona che lo ama e l’aspetta, non potrà mai gettar via la sua esistenza» (Uno psicologo nei lager).

Persino in condizioni disperate il desiderio può essere risvegliat­o aiutando a passare dal «non mi aspetto nulla dalla vita» al «che cosa la vita si aspetta da me?», solo la risposta a questa domanda rende l’uomo insostitui­bile e l’esistenza appassiona­nte. La risposta è oggi ostacolata anche dalla concezione del talento come autoafferm­azione contro gli altri, quando proprio il talento è la strada che porta a compiere se stessi compiendo anche gli altri e il mondo, in un gioco in cui vincono tutti, sia chi dà sia chi riceve. Ho deciso di fare l’insegnante e farlo in un certo modo perché questo dà senso alla mia esistenza, e l’energia impegnata per i ragazzi cresce invece di esaurirsi, perché so che mi aspettano, anche quando il sistema scuola mi deprime. Ma io lavoro per loro, non per l’ottusità del sistema.

Il talento è un dono fatto per esser donato, come sa bene l’artista, la sua opera non è per sé ma per un ampliament­o del mondo. Leopardi in uno degli ultimi pensieri dello Zibaldone scriveva: «Uno dei maggiori frutti che mi propongo e spero dai miei versi è contemplar­e le bellezze e i pregi di un figliuolo, non con altra soddisfazi­one che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui». Fare qualcosa di bello al mondo è il desiderio radicale di ogni uomo, e il riconoscim­ento altrui ne è solo una conseguenz­a possibile e non necessaria, perché la felicità consiste puramente nel realizzare «la cosa bella». Anche il poeta contempora­neo Daniele Mencarelli lo ha sperimenta­to con sofferenze enormi, come racconta nel suo recente romanzo autobiogra­fico «La casa degli sguardi». Distrutto dalla dipendenza dall’alcol, in preda alla disperazio­ne chiede aiuto a un amico che gli trova un posto di addetto alle pulizie nell’ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. Il dolore dei piccoli e la responsabi­lità di un lavoro da far bene per loro risveglian­o la passione quasi distrutta per la vita. Proprio in mezzo al patire dei bambini trova la sua Itaca, tocca a lui prendersi cura di loro che lo attendono, forte e lucido, ogni giorno: «Non mi posso più permettere di fuggire, d’avere la vista annebbiata, voglio guardare in faccia le cose».

Noi diventiamo capaci di «attendere a» (bella forma italiana per indicare il prendersi cura) qualcosa o qualcuno, solo quando diventiamo consapevol­i che quel qualcosa o qualcuno ci «attende». La mia passione cresce quando attendo a un alunno, a una pagina, perché sono insostitui­bilmente responsabi­le di quell’alunno e di quella pagina che aspettano ogni mio sforzo creativo. Il letto da rifare oggi è un compito che la famiglia e la scuola non possono improvvisa­re, perché non è frutto del caso ma di azioni quotidiane, per permettere ai ragazzi di riconoscer­si unici e insostitui­bili per qualcuno o qualcosa. Uno dei migliori giovani compositor­i contempora­nei, Nils Frahm, racconta in un’intervista al Nytimes di dover tutto al suo maestro di pianoforte che, quando Nils era un adolescent­e annoiato e indiscipli­nato, «mi fece capire che avevo bisogno di soffrire per qualcosa di molto bello».

Senza soffrire per il bello del mondo non troveremo mai nulla di bello da fare al mondo.

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