Corriere della Sera

ALESSANDRO MENDINI

- Rscorranes­e@corriere.it

Mi annoiano l’arroganza, la mancanza di umiltà e di autocritic­a: quello è il vero cattivo gusto, non il kitsch, che è una forma nobile con regole precise

«controdesi­gn». Le piace come definizion­e?

«Calza bene perché nelle riviste che ho diretto, specie Casabella, il principio era questo: dopo il design della ricostruzi­one, grossomodo dagli anni 50 in poi, arrivò, nei Settanta, il design dell’establishm­ent. Ebbene, io in quel periodo volli fare controdesi­gn. Cercavamo le radici non retoriche del made in Italy. Così, accanto a un progetto molto raffinato, noi discettava­mo delle forme del pane, per dire».

In mezzo, tanti compagni di viaggio. Ne nomino uno, Ettore Sottsass. Com’era?

«Un uomo forte e fragile. Ma c’era anche Nanda Pivano, che con lui ha condiviso molto. Grazie a Nanda adesso sto cominciand­o a leggere alcuni di quegli autori americani ai quali lei fece da madre. Credo che lo stesso Sottsass le debba molto, specie nella sua scrittura».

Lei votava comunista?

«Come quasi tutti, all’epoca».

Allora a preservarl­a dall’«impegno» dichiarato è stata questa sua gioiosa anarchia?

«Forse mi ha salvato il Futurismo, con il quale diluivo il radicalism­o degli anni 70. Casabella era vicina all’arte Povera per capirci. Ma io ci mettevo un po’ di Kandinsky, un po’ di Schlemmer e insomma tutto si alleggeriv­a. (Mendini intervalla queste risposte a sommesse risate che nascono negli occhi, ndr).

Poi arrivò lo studio Alchimia, uno dei più importanti movimenti del design. Siamo nel 1978 e, nella prima collezione, compare la sua Poltrona di Proust. Quell’oggetto colorato (e oggi di culto) sta per compiere 40 anni.

«È una falsa poltrona del Settecento decorata con un falso quadro di Signac. Due falsi che, insieme, fanno un pezzo originale. È il mio metodo, in breve. La comprò Cinzia Ruggeri, una stilista, che però poi la vendette. Oggi il modello originale è in una collezione privata in Svizzera. Ma lo sa che poi, a mia insaputa, hanno continuato a produrre le poltrone di Proust per un bel pezzo? Fino a che non mi sono ripreso il progetto. Che diamine».

Lei ha lavorato molto anche sul kitsch. Come definirebb­e questa forma di espression­e?

«Molto seriamente. Il kitsch ha delle regole precise: rimpicciol­imento della figura, traslazion­e della funzione, stridore dei colori. È quello che io applico a molti miei progetti, seguendo, ovviamente, uno stile poi originale. Ma io sono convinto che il kitsch inteso come Chi è

● Alessandro Mendini (Milano, 1931) è architetto e designer. Per tre volte «Compasso d’oro» (1979 1981 - 2014) è Chevalier des Arts et des Lettres in Francia, ha ricevuto l’onorificen­za dell’architectu­ral League di New York e la Laurea Honoris Causa al Politecnic­o di Milano. Ha diretto le riviste «Casabella», «Modo» e «Domus». Sul suo lavoro e su quello fatto con lo studio Alchimia sono uscite monografie in varie lingue

● Di recente, insieme a Erri De Luca, ha scritto «Diavoli Custodi», una sorta di diario a due voci (Feltrinell­i) categoria sia utile. È rilassante, ci aiuta a stare meglio: pensiamo solo alle canzonette leggere, ai libri e ai film scemotti. E poi vuoi mettere l’eleganza di un quadro finto alla parete? Perché mettere un quadro autentico in casa è una cosa che non si può vedere, siamo seri!».

Che cosa la annoia di più?

«L’arroganza. La mancanza di umiltà e di autocritic­a. Quello è il vero cattivo gusto, non il kitsch, che è una forma nobile».

C’è qualcosa che Mendini non farebbe mai?

«Un grattaciel­o. Per non lo so fare».

Però il suo atelier ha realizzato grandi progetti, come per esempio il Groninger Museum, in Olanda.

«Sì, ma lì abbiamo avuto prestigios­e collaboraz­ioni. Penso solo a Michele de Lucchi e Philippe Starck. Faccia lei».

Ma quando tante star simili lavorano insieme come si fa?

«Sono un ottimo paciere (risata)! No, scherzi a parte, i progetti collettivi sono stimolanti. Per dire, abbiamo lavorato alla metropolit­ana di Napoli, un grande esempio di arte, architettu­ra e ingegneria che si incontrano».

Però che lei sia un paciere è credibile. Che cosa sarebbe diventato se non avesse fatto il designer?

«Sarei stato un perfetto pentito. Ancora oggi io sono fatto di aria, colore e ripensamen­ti. Non sono mai sicuro di nulla».

Eppure lei è molto conosciuto per gli oggetti fatti per Alessi. Quanto le somigliano?

«Molto, perché sono un gioco nato dall’amicizia, sia psicologic­a che teorica, con Alberto Alessi. Sono una piccola galleria di mostri buoni, cavatappi col sorriso, coltellini svizzeri in forma di uccello e così via».

Verrebbe da citare divertire».

il semplice fatto che

il Palazzesch­i di «E lasciatemi

«Sì, lei può scrivere che sono un Geppetto: nelle mie mani, cose inanimate sembrano prendere vita. Come? Non lo so».

È così che Alessandro Mendini si definisce?

«No, aspetti, mi ci faccia pensare. Sì, ci sono: scriva che sono uno stronzo designer milanese. Perché in fondo, lo sono».

Non è vero. E una sedia colorata, con due occhi enormi, sembra scuotere la testa, paziente.

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