Corriere della Sera

LE LACRIME GIUSTE DEL CALCIO COMMOSSO CHE SI FERMA A PENSARE

- Di Daniele Dallera

Il calcio sa piangere. Di solito urla, spesso per far festa, oppure per insultare, avversario e arbitro, dipende dalle necessità. Stavolta si ferma, commosso, stravolto dal dolore, da quel cuore giovane che si arresta all’improvviso, cuore di capitano, Davide Astori, 31 anni, una giovane donna da amare, Francesca, e una bimba di due anni, Vittoria, da coccolare e da educare. Il calcio piange e si ferma, non ce la fa a giocare, a correre dietro al pallone, a cercare il gol, a mandarsi a quel paese per un fuorigioco non visto o un rigore non fischiato, a combattere per la vittoria, a disperarsi per una sconfitta. Stavolta la disperazio­ne è per una vita che non c’è più. Inutile chiedersi se sia giusto o sbagliato, se Giovanni Malagò, presidente del Coni e commissari­o di un calcio in crisi, abbia fatto bene a ordinare lo stop: ha deciso in pochi minuti, raggiunto da un dolore intenso e contagioso che ha travolto anche lui. C’è un senso alto, e al tempo stesso molto profondo, di umanità, quando il calcio, tutto il calcio, spesso ingordo consumator­e di sentimenti, si ferma a pensare. Compagni, avversari, ex compagni, tutti insieme, fanno una grande tribù. Quel mondo del pallone che piange, riflette, magari prega, esalta un valore fondamenta­le dello sport: il senso di squadra. Determinan­te nello sport, in qualsiasi disciplina: giocando da soli, privilegia­ndo egoismi e pigrizie, si fa poca strada. Fermandosi per un giorno, un solo giorno, il calcio ha fatto squadra. La morte di un uomo di 31 anni, qualsiasi mestiere faccia, è la fine di una speranza: quella di Davide Astori manda un segnale, la sua eco esce da Udine, raggiunge Firenze, si rilancia in tutta Italia, abbatte ogni confine europeo — Real Madrid, Barcellona, Manchester City, mezza Europa si rivelano amici di Davide — e si propaga lontano: è la preghiera, anche laica, di tutto lo sport.

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