Anche «Boss in incognito» cede alla logica del caso umano
È tornato Boss in incognito con il suo carico di colpi di scena, di paternalismo, di lacrime a buon mercato (Rai2, venerdì, 21.20). Com’è noto, il programma prevede che il manager di una grande azienda si rechi sotto mentite spoglie tra i suoi dipendenti per osservare come lavorano, per scoprire le criticità dei dipendenti, per migliorare il business, ovviamente, e per cogliere le opinioni dello staff senza i filtri del middle-management, le leve intermedie che separano il boss dagli operativi nella catena di comando (un formidabile esempio di branded content, una pubblicità «mascherata»; ma, presidente Maggioni, è cosa opportuna per un Servizio pubblico?). Il problema è che i filtri ci sono eccome e sono quelli della scrittura televisiva che interviene per costruire opportunamente le storie e il racconto.
Il peso del programma, che inizialmente era centrato anche sulla curiosità di vedere come funzionano alcune fasi della manifattura e del mondo del lavoro, si è spostato quasi tutto sulle storie personali dei dipendenti, costruite, spiace dirlo, secondo la logica del «caso umano», sul modello della versione americana del format. Si ravana nel privato, si cercano le facili corde dell’emozione nell’evocare le difficoltà familiari che hanno condizionato anche la vita professionale: ed è subito tv del dolore. Come quando il capo di un materassificio passa dal rimproverare aspramente una delle sue venditrici per non aver spinto con sufficiente convinzione ai clienti il «sistema letto» (letto, rete, materasso, cuscino) strappandole il contratto davanti, al cambiarle la vita offrendole finalmente l’agognato posto fisso.
Dal sadismo al mecenatismo «bello e buono», altro che Jobs act. Il prezzemolino Gabriele Corsi, chiamato a condurre questa edizione, fa il suo dovere, ma deve stare attento a non esagerare con il presenzialismo televisivo.