La ribellione dentro il partito I ministri in difesa di Gentiloni
Zanda: Veltroni e Bersani lasciarono un minuto dopo. Martina per «dimissioni vere» Gelo di Delrio e Franceschini. Critiche da Calenda: fuori dal mondo dare colpe al governo
ROMA La rapidità con cui ministri e capicorrente hanno mollato Matteo Renzi, rivela la durezza di uno scontro che rischia di spaccare il Pd. Il segnale di guerra è una dichiarazione di Luigi Zanda, del quale è nota la vicinanza a Dario Franceschini. «Quando Veltroni e Bersani si sono dimessi lo hanno fatto e basta, un minuto dopo non erano più segretari», battono le agenzie di stampa. E ancora: «Le dimissioni di un leader sono una cosa seria, o si danno o non si danno. E quando si decide, si danno senza manovre».
È subito chiaro che il presidente uscente dei senatori dem non sta parlando a titolo personale. La formula delle dimissioni congelate ha sconcertato i maggiorenti e innescato uno scambio frenetico di telefonate sulla linea Nazareno-palazzo Chigi. A Paolo Gentiloni è arrivato come uno schiaffo il riferimento di Renzi al suo governo, liquidato come un errore strategico. Giudizi ritenuti ingenerosi, che hanno contribuito a saldare il fronte dei ribelli. Dario Franceschini è molto preoccupato e sta coordinando le sue mosse con Gentiloni, nel tentativo tra l’altro di rimettere il Pd in sintonia con il Quirinale.
A cominciare da Marco Minniti, i ministri fanno quadrato attorno al premier uscente e l’obiettivo, non dichiarato ma evidente, è isolare Renzi, depotenziare l’iniziativa di un leader ritenuto capace di intonare «muoia Sansone con tutti i Filistei». Graziano Delrio, che pare non parli con il leader da un paio di mesi, è letteralmente sgomento, prova ne sia l’assenza del fedelissimo Matteo Richetti in conferenza stampa. Il vicesegretario Maurizio Martina, come Delrio, è «poco convinto» della exit strategy di Renzi e preme anche lui perché si apra una fase nuova, che passi attraverso «dimissioni vere» del leader.
Al congresso gli oppositori dell’ex premier avranno un candidato comune e tra i papabili si fanno i nomi di Zingaretti, Gentiloni, Martina, Delrio. Walter Veltroni si tiene fuori, ma il suo endorsement per Gentiloni è ritenuto un pilastro della «resistenza» ulivista, vogliosa di ricostruire dalle sue ceneri il centrosinistra. Enrico Letta è lontano, eppure tiene ancora alle sorti del partito. L’ex deputato lettiano Marco Meloni parla di «dimissioni fake» e «cinico tentativo di avvelenare i pozzi» e chiede a Renzi di farsi da parte «perché ha portato il Pd e il centrosinistra alla sconfitta più grande della sua storia». La stessa formula scandisce Andrea Orlando. Il leader della minoranza si sarebbe aspettato «una vera assunzione di responsabilità da un segretario che, eletto con il 70%», ha potuto definire «in modo pressoché solitario linea, organigrammi e candidature». Col passar dei minuti le voci critiche aumentano, da Giorgio Gori a Goffredo Bettini, da Gianni Cuperlo a Carlo Calenda. Il ministro è convinto che «sia fuori dal mondo addossare la responsabilità della sconfitta a Gentiloni e Mattarella». Giorgio Gori ha trovato «poco chiari» alcuni passaggi del discorso di Renzi. Per Anna Finocchiaro «annunciare le dimissioni e non darle» dopo una simile batosta è «in contrasto con il senso di responsabilità, lealtà e chiarezza». E via così, in un crescendo di critiche che Lorenzo Guerini prova a stoppare: «Nessuna dilazione, le dimissioni di Renzi sono verissime. Nessuna gestione solitaria nei prossimi passaggi».
Michele Emiliano parla di «rifondazione» della comunità democratica: «Renzi punta alla sua autoconservazione, pensa a come rientrare il partita. Per questo finge di dimettersi». I renziani contrattaccano. «O Zanda ha in mente un modello fatto di caminetti e inciuci, o vuole candidarsi a segretario», insinua Anna Ascani. E una nuova stagione di veleni si apre.
Le responsabilità Orlando: non vedo un’assunzione di responsabilità da chi ha deciso da solo