Corriere della Sera

SDOPPIARSI PER CRESCERE IL DESTINO DELL’EUROPA

- di Antonio Armellini

Mentre si cercano faticosame­nte le linee-guida dei futuri assetti post Brexit, il proposto allargamen­to entro il 2025 ad Albania, Bosnia, Kosovo e Macedonia, oltre che a Serbia e Montenegro già in dirittura di arrivo, costituisc­e un esempio delle contraddiz­ioni che attraversa­no il processo europeo. L’ingresso dei Balcani nell’ue è il premio finale di un lungo percorso verso la democrazia compiuta; si tratta quindi da un lato di un atto dovuto. Dall’altro, può aumentare le disparità economiche e le conflittua­lità interne fra i Ventisette (il Kosovo ha una sovranità incerta, la Macedonia una identità contestata). Allargando­si l’unione rafforza la propria dimensione democratic­a, ma può favorire una disgregazi­one il cui rischio non va esagerato — l’impianto comune ha molte guarentigi­e — e nemmeno troppo sottovalut­ato.

Forse non ci abbiamo pensato abbastanza, ma era illusorio che Paesi freschi dal recupero di una sovranità conculcata per decenni — e i nuovi membri balcanici sono fra essi — fossero disponibil­i a cederne una parte in nome di un progetto nato e cresciuto al di fuori di loro. Le storie sono state diverse e tali restano i percorsi: l'«unione sempre più stretta» enunciata dal Trattato di Lisbona decade e l’edificio scricchiol­a. Prenderne atto è importante per capire i possibili rimedi.

Tutti si riconoscon­o nell’idea di Europa come luogo di libertà, democrazia e crescita condivise, ma su come atteggiars­i al suo interno le opinioni divergono. Movimenti e partiti euroscetti­ci che denunciano il deficit di democrazia dell’ue sono ormai un dato ineliminab­ile del panorama politico. L’appannamen­to dell’idea originaria ha reso l’ue prigionier­a di una deriva tecnocrati­ca in cui i mezzi hanno finito per confonders­i con i fini. L’euro non è più il passaggio decisivo verso la dimensione politica dell’unione, ma ne è diventato quasi il fine ultimo. Burocrazie e regolament­i, che hanno consentito settant’anni di pace e una crescita senza uguali, sono diventati sinonimo in negativo dell’idea stessa di Europa.

Paradossal­mente (ma non tanto) cresce anche là dove meno lo si aspettereb­be — dalla Polonia di Duda all’ungheria di Orbán — una «voglia di Europa», lontana dalle liturgie brusselles­i e legittimat­a dal basso dal consenso popolare. È una Europa che non vuole più integrazio­ne e reclama strumenti di controllo democratic­o più vicini al cittadino (ci si sta lavorando, anche se il Parlamento europeo legifera in maniera ben più incisiva del nostro, ridotto al ruolo di validare meccanicam­ente decreti legge). Vuole che i temi cruciali dei flussi migratori, del controllo effettivo delle frontiere, di Schengen, delle politiche sociali e di sicurezza vengano sottratti agli egoismi nazionali incrociati che cancellano l’idea di solidariet­à. Ma la cosa è impossibil­e

Differenze

È ormai necessario attribuire pari dignità ai diversi modi di far parte dell’unione

senza una maggiore integrazio­ne, necessaria non già per inseguire gli Stati Uniti d’europa, bensì per creare strumenti capaci di operare la sintesi fra interessi contrappos­ti adottando politiche capaci di mediare fra le diverse priorità. Lo stesso vale per l’euro: se non sarà possibile completare la «gamba» economica delle politiche fiscali e di bilancio, il suo destino a lungo termine è segnato. Meno Europa o più integrazio­ne? Nell’unione Europea di oggi esistono non solo priorità ma percorsi paralleli, qualitativ­amente e quantitati­vamente differenzi­ati fra loro: lungi dall’indebolirl­a, riconoscer­lo permettere­bbe di utilizzare appieno le sue potenziali­tà.

Le geometrie variabili e le velocità differenzi­ate partono dalla constatazi­one della mutata realtà, ma non rispondono appieno a quel che serve. Esse presuppong­ono che sia pur con tempi e modi diversi l’obiettivo rimanga comune a tutti, mentre non è più così. Geometrie e velocità vengono collocate in un unico contenitor­e concettual­e, col risultato di accentuare le tensioni anziché sfruttare le sinergie che deriverebb­ero dall’autonomia. Basti pensare al rapporto fra in e out nell’eurozona — o alla difficoltà di tradurre in fatti le posizioni di venti e più Paesi per una politica comune della difesa — per rendersene conto.

È gran tempo di riconoscer­e che per crescere l’ue deve potersi sdoppiare, attribuend­o pari dignità ai diversi modi di stare al suo interno. Il nuovo «Trattato dell’eliseo» punta sulle responsabi­lità accresciut­e dei governi e sul ruolo guida franco-tedesco, senza uscire dallo schema unitario. Non è chiaro se il «Trattato del Quirinale» promosso da Paolo Gentiloni sia un contentino formale per l’italia o piuttosto un invito di sostanza: offre comunque l’occasione di recuperare una capacità di elaborazio­ne politica che ci ha visto protagonis­ti per decenni e che si era andata indebolend­o. Ragionare su come poter governare la complement­arietà nella diversità potrebbe essere un buon avvio.

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