SDOPPIARSI PER CRESCERE IL DESTINO DELL’EUROPA
Mentre si cercano faticosamente le linee-guida dei futuri assetti post Brexit, il proposto allargamento entro il 2025 ad Albania, Bosnia, Kosovo e Macedonia, oltre che a Serbia e Montenegro già in dirittura di arrivo, costituisce un esempio delle contraddizioni che attraversano il processo europeo. L’ingresso dei Balcani nell’ue è il premio finale di un lungo percorso verso la democrazia compiuta; si tratta quindi da un lato di un atto dovuto. Dall’altro, può aumentare le disparità economiche e le conflittualità interne fra i Ventisette (il Kosovo ha una sovranità incerta, la Macedonia una identità contestata). Allargandosi l’unione rafforza la propria dimensione democratica, ma può favorire una disgregazione il cui rischio non va esagerato — l’impianto comune ha molte guarentigie — e nemmeno troppo sottovalutato.
Forse non ci abbiamo pensato abbastanza, ma era illusorio che Paesi freschi dal recupero di una sovranità conculcata per decenni — e i nuovi membri balcanici sono fra essi — fossero disponibili a cederne una parte in nome di un progetto nato e cresciuto al di fuori di loro. Le storie sono state diverse e tali restano i percorsi: l'«unione sempre più stretta» enunciata dal Trattato di Lisbona decade e l’edificio scricchiola. Prenderne atto è importante per capire i possibili rimedi.
Tutti si riconoscono nell’idea di Europa come luogo di libertà, democrazia e crescita condivise, ma su come atteggiarsi al suo interno le opinioni divergono. Movimenti e partiti euroscettici che denunciano il deficit di democrazia dell’ue sono ormai un dato ineliminabile del panorama politico. L’appannamento dell’idea originaria ha reso l’ue prigioniera di una deriva tecnocratica in cui i mezzi hanno finito per confondersi con i fini. L’euro non è più il passaggio decisivo verso la dimensione politica dell’unione, ma ne è diventato quasi il fine ultimo. Burocrazie e regolamenti, che hanno consentito settant’anni di pace e una crescita senza uguali, sono diventati sinonimo in negativo dell’idea stessa di Europa.
Paradossalmente (ma non tanto) cresce anche là dove meno lo si aspetterebbe — dalla Polonia di Duda all’ungheria di Orbán — una «voglia di Europa», lontana dalle liturgie brussellesi e legittimata dal basso dal consenso popolare. È una Europa che non vuole più integrazione e reclama strumenti di controllo democratico più vicini al cittadino (ci si sta lavorando, anche se il Parlamento europeo legifera in maniera ben più incisiva del nostro, ridotto al ruolo di validare meccanicamente decreti legge). Vuole che i temi cruciali dei flussi migratori, del controllo effettivo delle frontiere, di Schengen, delle politiche sociali e di sicurezza vengano sottratti agli egoismi nazionali incrociati che cancellano l’idea di solidarietà. Ma la cosa è impossibile
Differenze
È ormai necessario attribuire pari dignità ai diversi modi di far parte dell’unione
senza una maggiore integrazione, necessaria non già per inseguire gli Stati Uniti d’europa, bensì per creare strumenti capaci di operare la sintesi fra interessi contrapposti adottando politiche capaci di mediare fra le diverse priorità. Lo stesso vale per l’euro: se non sarà possibile completare la «gamba» economica delle politiche fiscali e di bilancio, il suo destino a lungo termine è segnato. Meno Europa o più integrazione? Nell’unione Europea di oggi esistono non solo priorità ma percorsi paralleli, qualitativamente e quantitativamente differenziati fra loro: lungi dall’indebolirla, riconoscerlo permetterebbe di utilizzare appieno le sue potenzialità.
Le geometrie variabili e le velocità differenziate partono dalla constatazione della mutata realtà, ma non rispondono appieno a quel che serve. Esse presuppongono che sia pur con tempi e modi diversi l’obiettivo rimanga comune a tutti, mentre non è più così. Geometrie e velocità vengono collocate in un unico contenitore concettuale, col risultato di accentuare le tensioni anziché sfruttare le sinergie che deriverebbero dall’autonomia. Basti pensare al rapporto fra in e out nell’eurozona — o alla difficoltà di tradurre in fatti le posizioni di venti e più Paesi per una politica comune della difesa — per rendersene conto.
È gran tempo di riconoscere che per crescere l’ue deve potersi sdoppiare, attribuendo pari dignità ai diversi modi di stare al suo interno. Il nuovo «Trattato dell’eliseo» punta sulle responsabilità accresciute dei governi e sul ruolo guida franco-tedesco, senza uscire dallo schema unitario. Non è chiaro se il «Trattato del Quirinale» promosso da Paolo Gentiloni sia un contentino formale per l’italia o piuttosto un invito di sostanza: offre comunque l’occasione di recuperare una capacità di elaborazione politica che ci ha visto protagonisti per decenni e che si era andata indebolendo. Ragionare su come poter governare la complementarietà nella diversità potrebbe essere un buon avvio.