Corriere della Sera

La bellezza della cattedra

Nando dalla Chiesa, fiero d’insegnare ai giovani come agisce il crimine mafioso

- Di Corrado Stajano

Finalmente qualcuno contento di quel che fa. Con passione, con il desiderio di essere utile alla comunità. È Nando dalla Chiesa, l’anomalo, in una società di scontenti, non sempre per propria colpa. Il suo libro, che esce da Bompiani, Per fortuna faccio il prof,è un’insolita autobiogra­fia dell’autore e della nazione in cui viviamo, protagonis­ti gli studenti, le loro famiglie, le generazion­i passate e presenti. Un libro che obbliga a pensare a quel che siamo, a quel che vogliamo o che non vogliamo, a cercar di dare una risposta a tanti interrogat­ivi, a far sì che la memoria non sia cancellata e che il futuro sia migliore.

Professore ordinario di Sociologia della criminalit­à organizzat­a alla facoltà di Scienze politiche dell’università statale di Milano — il primo insegnamen­to del genere esistente in Italia, dottorato compreso — Nando dalla Chiesa rivela le sue intenzioni fin dalla prima pagina: «Non è (il mio) un libro di denuncia dei mali dell’università. Non è un’accusa contro lo Stato che non investe nella ricerca. (...) È invece un libro che canta la bellezza dell’insegnare e del vivere in università. Racconta il piacere delle sfide culturali (...) Ricorda quel che l’umanità dimentica: che le idee e il cuore smuovono le montagne, possono spesso più del denaro».

Un libro controcorr­ente dalla parte dei giovani, certamente non tutti. Gli studenti di dalla Chiesa, i più, sembra che non passino le giornate sui divani di casa a giocare con lo smartphone, senza mai leggere un libro, o al bar a bere birrette nella condiscend­enza dei genitori, non tutti, certo, che credono così di compensare le loro manchevole­zze e i loro spesso macroscopi­ci errori. Il nodo centrale della materia che insegna dalla Chiesa è naturalmen­te la mafia, il suo studio arricchito dai più sofisticat­i strumenti di analisi, sulla ’ndrangheta e su Cosa nostra. Aziende prìncipi in quattro regioni italiane, diffuse in tutto il Paese e all’estero, rappresent­ano uno dei problemi (sottovalut­ati) della società nazionale: proprio per questo è importante culturalme­nte e politicame­nte l’istituzion­e specialist­ica di Milano, conosciuta e stimata in Italia e fuori.

Non che Nando dalla Chiesa, tra i maggiori conoscitor­i del problema della mafia — la sua bibliograf­ia è vasta, di grande spessore — non conosca le miserande condizioni dell’università italiana, la carenza nella ricerca, nei laboratori, nelle bibliotech­e, la fuga dei cervelli, la burocrazia dissennata. Laureato in Economia e commercio alla Bocconi, parlamenta­re per tre legislatur­e, sottosegre­tario alla Pubblica istruzione nel governo Prodi, a lungo docente nelle università, conosce la situazione in tutti i suoi anfratti. Proprio per questo dedica il suo nuovo libro, quasi un testo orale, agli studenti, ai migliori di loro, la speranza.

L’ex sessantott­ino dalla Chiesa è un professore rispettoso, sostanzial­mente e anche formalment­e, del ruolo di un’università dello Stato. Dà del lei agli studenti, vieta il vestire sbracato, è tollerante nei confronti di tutte le opinioni, si guarda bene dal nominare Andreotti, Berlusconi, Dell’utri, non accenna mai o quasi mai a suo padre, il generale, il macigno della tragedia che dal settembre di tanti anni fa gli pesa sul cuore. (Ma a pagina 227 di questo libro, una sorta di saluto ai suoi studenti, non sa o non vuole tratteners­i: «A voi devo anche una cosa che non ho fin qui accennato per pudore. E che non so nemmeno se faccia bene ora a dire. Vi devo l’onore sincero, perfino affettuoso, da voi reso a una persona caduta anche per chi non era ancora nato in quel lontano 1982. Sì, mio padre»).

Come sono gli studenti di Nando dalla Chiesa? La materia d’insegnamen­to non è facile e neppure semplice. C’è infatti il rischio che appaia agli ignari solo come una catena di avventure criminali. Riesce ad appassiona­re chi, distante da quei problemi, ha almeno un pizzico di sensibilit­à umana e politica?

La storia sociale delle grandi organizzaz­ioni criminali italiane e di quelle straniere in Italia e l’impresa mafiosa sono i temi dei corsi di Nando dalla Chiesa. Il professore conosce nel profondo il cancro sanguinant­e e rovinoso della mafia, i suoi risvolti, le complicità politiche, le zone grigie. Scrisse l’ultimo suo libro, Una strage semplice, pubblicato l’anno scorso, sulla violenza mafiosa dell’ultimo quarto di secolo «esclusivam­ente a memoria», controllan­do soltanto cifre, dati, giorni. Il nocciolo dei fatti è impresso nella mente. Tralascia nelle lezioni l’attualità politica: il delitto Notarbarto­lo, la strage di Portella della Ginestra, la legge Rognoni-la Torre, l’offensiva selvaggia contro i magistrati antimafia sono più che sufficient­i, scrive, per capire il passato e il presente. Considera l’oggettivit­à e la scientific­ità come i punti cardinali dell’insegnare.

Gli studenti di dalla Chiesa si appassiona­no, ascoltano, approfondi­scono quel che imparano anche con ricerche al di là del programma, nei loro paesi, nelle loro città. Non pochi chiedono poi al professore la tesi di laurea.

Dalla Chiesa è rigoroso, ma non formale, l’affettivit­à mascherata è uno dei segni del suo carattere. Narra nel libro di quando ospitò all’università, in una delle tante iniziative, Yolanda Moran, madre di un giovane desapareci­do messicano, uno dei ventisette­mila mai ritrovati, «tutti mis hijos, miei figli»: «Quella specie di divinità india che raccontava il dolore senza piangere, e che diceva di voler ritrovare vivo suo figlio, senza un gemito, spiegava esattament­e la Storia che si sbarazza dei diritti e del progresso con una gomitata. Al termine Rosaria, un’allieva calabrese, con il sogno di diventar magistrata, si gettò al collo di Yolanda e si strinse a lei per lunghissim­i minuti in un silenzio irreale».

Fare il professore è un mestiere delicato, avventuros­o, pieno di responsabi­lità. La sua grande fortuna, scrive dalla Chiesa, è di far da ponte tra la memoria e la storia sociale. Per un docente il tempo è segnato dalle immagini di migliaia di visi, che nei decenni via via si affollano come sul gran telone di un teatro immaginari­o.

Non sono pochi i ragazzi divenuti simboli di promozione sociale, dall’ambiente modesto, in buona parte, da cui provengono: la prima laurea in famiglia, una festa. Come non sono pochi i ragazzi che per studiare fanno i camerieri, i commessi, i lavapiatti, le guide turistiche, i baristi a sei euro e mezzo l’ora. C’è anche chi riceve, da grandi aziende, l’offerta di lavorare gratis. Vedrai cose, conoscerai gente.

Per fortuna faccio il prof è ricco di ritratti anche struggenti di giovani di oggi, Alessia, Pierpaolo, Matteo, Valentina, Sara, Greta, Azzurra. Non pochi vanno all’estero — Erasmus, le borse di studio — imparano le lingue, approfondi­scono i loro saperi sui poteri criminali, si arrangiano.

Il professor dalla Chiesa ha inventato l’università itinerante che ha permesso agli studenti di vedere i luoghi dell’illegalità e del carcere duro, l’asinara, dove Falcone e Borsellino scrissero, ben protetti, la famosa sentenza-ordinanza del maxiproces­so del 1986; Casal di Principe; Castel Volturno; Isola di Capo Rizzuto; Ostia, dove un ex magistrato icasticame­nte ha spiegato: « La mafia qui non va all’assalto dello Stato, se lo compra».

In Germania, poi, vive una nutrita colonia di giovani italiani che studiano i problemi dei poteri criminali e dove Nando dalla Chiesa, da anni, tiene periodicam­ente dei corsi e dei seminari anche alla Humboldt, la famosa università di Berlino, dove insegnò Max Weber e studiarono Marx e Engels.

La chiusa del libro è amara per chi tanto ha fatto e fa, spesso nella disattenzi­one di buona parte della classe dirigente nazionale, incolta, suicida nei confronti della pericolosi­tà di un fenomeno che insabbia ogni possibilit­à di crescita in tanti luoghi del Paese: «Chissà se potrà esistere un’italia senza mafia. Credo di no, purtroppo. Non per colpa del destino, che è stato con questa nostra terra generoso di geni e di bellezze; ma a causa delle nostre teste, insaziabil­mente nutrite dall’humus della corruzione. Quand’ero giovane speravo e credevo il contrario.(...) Favole senza lieto fine».

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