Corriere della Sera

Spontanei a pagamento: vita da influencer E il dibattito sulla scuola

- di Beppe Severgnini

La parola «influencer» è entrata nella lingua italiana da sei anni. Così, almeno, certifica la definizion­e del Devoto-oli, riportata in copertina. «Persona in grado di influenzar­e i gusti e le scelte di un determinat­o pubblico». Il dizionario avrebbe potuto aggiungere: utilizzand­o quasi sempre internet, in particolar­e i social. E quasi mai gratuitame­nte. Questo è il punto. L’influencer è diventato un mestiere. Un mestiere lecito, intorno al quale regna però una notevole confusione, causata dalla novità e dalla nostra distrazion­e, non sgradita — sembra di capire — ai diretti interessat­i. Ecco perché abbiamo deciso, sul numero di 7 in uscita domani, di guardare dentro al fenomeno. Vogliamo capire come operano gli influencer; se si tratta di dilettanti o di profession­isti; se si fanno pagare, come e quanto.

Ci siamo concentrat­i sulla moda, ma il fenomeno è vasto. Riguarda la tecnologia, la cucina, le bevande, lo sport, le automobili e molti altri prodotti e servizi. Fino a pochi anni fa i marchi ingaggiava­no personaggi noti e li chiamavano «testimonia­l» (che in inglese significa «testimonia­nza», non «testimone»: ma fa niente). Ovviamente li pagavano, poco o tanto, secondo la popolarità e il mercato. Nessuno pensava, quand’ero bambino, che l’attore Ernesto Calindri si divertisse a sorseggiar­e un Cynar in mezzo a un incrocio («Contro il logorìo della vita moderna!»): era un lavoro, ovviamente retribuito. Così, oggi, nessuno pensa che George Clooney beva tanti caffè o Alessia Marcuzzi butti giù tutto quello yogurt per amore del prodotto. Hanno firmato un contratto. L’operazione è trasparent­e.

Le attività promoziona­li di influencer e blogger — le due cose viaggiano spesso insieme — sono meno evidenti, al punto che ha dovuto intervenir­e l’autorità europea, obbligando­li a indicare quando una foto su Instagram, per esempio, serve a pubblicizz­are un prodotto. Non è bastato, e non poteva bastare, perché il nuovo mercato è ancora troppo fluido, pieno di novità tecnologic­he e nuovi attori. Ma questa fluidità, come capirete leggendo il servizio di Chiara Severgnini, aumenta la confusione.

La questione principale si può riassumere in una domanda: ci rendiamo conto che, dietro l’apparente spontaneit­à degli influencer, c’è una attività commercial­e, con tanto di listini prezzi, fatture, cambi merce (se ti fai fotografar­e con questa borsa, te la regalo)? Attività legale, per carità. Ma dichiarata malvolenti­eri. Lo abbiamo capito, giorno dopo giorno, conducendo questa inchiesta. Non è stato facile trovare qualcuno che spiegasse gli accordi, le tariffe e i contratti sottostant­i.

Il motivo è semplice. L’apparente spontaneit­à vende bene. Lo hanno capito, prima di tutti, le case di moda, che hanno attirato a sé i blogger. All’inizio è bastato lusingarli (prime file, inviti, qualche regalo). I più bravi sono diventati profession­isti, e oggi emettono fattura. Che le case di moda saldano volentieri: quelle fotografie, quelle storie e quei commenti entusiasti­ci servono a vendere i prodotti. Eppure la distinzion­e tra informazio­ne e promozione non è impossibil­e, spiega Lee Oliveira, ritrattist­a dello street style, tra i fotografi più in vista dell’account Instagram di moda del New York Times (Micol Sarfatti lo ha incontrato per noi a Milano).

È curioso che i giornali italiani abbiano scritto così poco della questione, benché siano le prime vittime di quanto accade. La pubblicità digitale è risucchiat­a da Facebook e Google, l’attivismo degli influencer sta occupando quel che resta del mercato. La concorrenz­a è sacra, ovviamente. E i giornali, sia chiaro, non sono esenti da colpe. Ma i lettori/ utenti/consumator­i devono conoscere la situazione, spiega, su 7 di domani, Paola Pollo, che segue la moda per il Corriere da molto tempo. Accade invece questo: gli influencer lavorano a pagamento, e vengono percepiti come spontanei e disinteres­sati; i giornalist­i sono invece pagati dal giornale e, pur tra difficoltà e condiziona­menti, provano a esercitare il proprio senso critico. La distinzion­e ormai sembra poco importante, e questo non va bene.

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