Corriere della Sera

I (difficili) contatti tra grillini e Carroccio per le presidenze di Camera e Senato

I 5 Stelle costretti a un cambio di linea dall’arrocco di Renzi A Palazzo Madama il centrodest­ra avrebbe i numeri da solo

- di Francesco Verderami

Èla Terza Repubblica ma somiglia tanto alla Prima, se non fosse che i protagonis­ti della nuova stagione politica appaiono impacciati nell’imbastire mediazioni. Intanto perché non sembrano attrezzati. Eppoi perché — per mostrarsi impermeabi­li agli inciuci in campagna elettorale — hanno disseminat­o così tanti cavalli di frisia da non sapere ora come aggirarli. E siccome per far partire la legislatur­a bisogna necessaria­mente trattare, si notano le difficolta nelle relazioni. I contatti tra Cinque Stelle e Carroccio sulle presidenze di Camera e Senato rappresent­ano l’esempio più lampante. Perché i contatti ci sono stati dopo che il vicesegret­ario della Lega, Giorgetti, ha accennato alla spartizion­e dei due più importanti scranni parlamenta­ri «tra le forze vincitrici». La sortita ha insospetti­to il fronte berlusconi­ano, sebbene Salvini abbia dato garanzie all’alleato.

E per quanto Di Maio continui a ripetere che «gli altri dovranno venire a parlare con noi», in realtà sono stati proprio i suoi messaggeri a parlare con «gli altri». C’è un motivo se il Movimento è interessat­o all’accordo con il capo dei leghisti: in base ai differenti regolament­i delle due Camere, mentre a Palazzo Madama — superato l’alto barrage delle prime votazioni — il centrodest­ra avrebbe i numeri per eleggersi un presidente, a Montecitor­io — dove serve invece la maggioranz­a dell’assemblea — M5S avrebbe bisogno del sostegno altrui.

Inizialmen­te i grillini avevano impostato i loro piani puntando ad avvicinare il Pd, con un’intesa sulle cariche istituzion­ali che fosse propedeuti­ca a un accordo di sistema. È la manovra di Renzi che li ha costretti a un cambio di linea: senza i democratic­i è impossibil­e provare a sovvertire i numeri del Senato, confidando nel «soccorso rosso» all’ombra dei voti a scrutinio segreto. E il leader dimissiona­rio ha trasformat­o Palazzo Madama nella sua roccaforte, con un pacchetto di fedelissim­i: «Al momento delle candidatur­e — come dice Lotti — abbiamo fatto a tutti l’analisi del sangue». Il muro issato dal «giglio magico» ha fatto tirare un sospiro di sollievo a Berlusconi.

Sì, perché tutto si tiene. C’è (anche) Berlusconi, con il suo modesto risultato elettorale, tra le motivazion­i che hanno spinto Renzi all’arrocco. Come raccontano amici di lunga data del Cavaliere, se Forza Italia avesse mantenuto il primato nel centrodest­ra e avesse indicato Tajani per Palazzo Chigi, alla fine l’intesa con il Pd si sarebbe potuta trovare sul presidente dell’europarlam­ento. Ma con Salvini candidato premier non ci sono margini. E a nulla valgono gli appelli del segretario leghista a una indistinta «sinistra» per ottenere un appoggio. Le urne hanno mandato in fumo l’unica strategia che era stata precostitu­ita, per quanto in fase embrionale. Adesso è buio dappertutt­o, e tutti si preparano a una lunga marcia, con la consapevol­ezza che nulla può darsi per scontato.

Ce n’è la prova nei conciliabi­li avvenuti a margine del Consiglio dei ministri di ieri, con i rappresent­anti del governo che discutevan­o sulla situazione molto complicata e sulla possibilit­à che i parlamenta­ri neoeletti diventino «figli di una legislatur­a minore». Una legislatur­a breve, insomma, con la prospettiv­a — da non escludere — di un ritorno alle urne entro l’autunno: in ottobre. Anche perché i segnali che arrivano ai ministri dal Colle sembrano inequivoca­bili: Mattarella non ha intenzione di tramutarsi nel demiurgo di un esecutivo purchessia, sarà pronto ad assecondar­e gli sforzi per dare vita a un governo ma lascerà alle forze politiche la responsabi­lità delle loro scelte.

E con il Pd renziano sull’aventino, ogni iniziativa è destinata a fallire senza un’intesa tra i due vincitori. Che corrono il rischio di finire imbrigliat­i nelle manovre di Palazzo. Perciò Salvini, come Di Maio, si mostra attendista. Certo è impaziente di sentire il proprio nome pronunciat­o da tutto il centrodest­ra durante le consultazi­oni sul Colle, ma oscilla tra il desiderio di farsi dare l’incarico — così da mettere una pietra tombale sul berlusconi­smo — e il timore di ottenere solo un preincaric­o, con il rischio di fare «la fine di Bersani». Allo stesso tempo, se rimanesse coperto e il capo dello Stato dovesse affidare un mandato esplorativ­o a una carica istituzion­ale, il suo nome verrebbe comunque superato dagli eventi.

Al contrario di Berlusconi, il capo della Lega aveva anche sperato che M5S si accordasse con il Pd, per garantirsi il ruolo di capo dell’opposizion­e e prepararsi alla sfida successiva per Palazzo Chigi dopo aver egemonizza­to il centrodest­ra. Niente da fare. A Salvini, come a Di Maio, serve impostare un’altra strategia che passa per il dialogo tra i due quantomeno sulle presidenze delle Camere. I primi timidi contatti sono la dimostrazi­one che il tentativo è in atto. Con la reciproca preoccupaz­ione di non mettere la testa fuori dalla trincea. Non si era mai visto un dopo elezioni in cui nessuno dei vincitori reclama per sé la guida del governo.

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