Corriere della Sera

La famiglia che inventò il cinema saudita E ora lo riapre

Cadono i divieti, nel Regno si torna a proiettare

- dalla nostra inviata a Gedda Viviana Mazza

Acasa Jamjoom si entra da un portoncino affacciato su una strada di case basse, non lontano dalla città vecchia di Gedda. Difficile immaginarl­o, ma qui quarant’anni fa folle di spettatori — rigorosame­nte uomini — venivano a guardare in un cortile film di Hollywood, melodrammi egiziani e indiani, spaghettiw­estern italiani e classici di Vittorio De Sica o Sofia Loren. «Dopo ogni matrimonio venivano a vedersi un film, era diventata un’usanza», dice Shihab Jamjoom, in thobe e ghotra tradiziona­li, accogliend­oci nella casa che negli anni Settanta suo cugino Fuad trasformò nel primo cinema dell’arabia Saudita. Oggi restano a testimonia­rlo solo vecchie telecamere e una montagna di «pizze» cinematogr­afiche con titoli arabi.

Molti sanno che l’arabia Saudita è stato un Paese senza cinema, considerat­i una minaccia per l’identità culturale e religiosa secondo la rigida interpreta­zione wahhabita dell’islam. Solo da questo mese sono stati autorizzat­i nel Regno, grazie alle riforme del principe ereditario Mohammed bin Salman. Dal 1° marzo, gli esercenti hanno cominciato a ottenere licenze di proiezione per sale con zone separate per uomini da una parte e donne e famiglie dall’altra. Pochi sanno, però, che qui il cinema non è sempre stato haram, proibito.

Alla fine degli anni Sessanta Fouad Jamjoom, rampollo di una nota famiglia di commercian­ti di Gedda, tornò a casa dopo anni passati in Egitto. Era l’epoca d’oro del cinema di Youssef Chahine e Salah Abu Seif, e il ventenne Fuad s’era innamorato del grande schermo al punto da imbarcarsi nella gestione di una piccola sala nella provincia egiziana di Tanta.

In Arabia Saudita solo qualche ambasciata e qualche famiglia abbiente aveva accesso a un proiettore, oltre alla compagnia petrolifer­a Aramco che mostrava i film del momento ai suoi dipendenti. Fuad allestì un cinema all’aperto, e fu subito un successo. «La gente veniva anche dalla Mecca e da Medina. Mio cugino ottenne l’esclusiva sui contratti con Warner Brothers e Twentieth Century Fox, e stringeva accordi dall’egitto all’italia», racconta Shihab, che oggi è il patriarca della famiglia. Fuad curava anche la censura, tagliando le scene sconvenien­ti: «Ma al massimo a quell’epoca si trattava di qualche bacio». Poi costruì una vera e propria sala, sul retro di casa. «Si ispirò all’architettu­ra dello storico cinema Metro del Cairo, con spazi separati per gli uomini al piano terra e per le famiglie al piano di sopra».

Non tutti erano d’accordo, le stesse autorità erano divise: «Il re Fahd, allora principe e ministro dell’interno, era a favore; il principe della Mecca contrario», spiega Shihab. «A un certo punto Fuad ebbe una crisi religiosa e consultò uno sheikh. “Quel che faccio è haram?”. Lo sheikh tirò fuori un coltello e lo usò per tagliare una banana: “Credi che questa sia haram?”. Ogni strumento, dal coltello al cinema, può essere usato per far del male o del bene». Ma nel 1979 la Rivoluzion­e Islamica in Iran e l’attacco dei fanatici alla Mecca diedero forza agli estremisti. Fuad fu arrestato più volte, la sua sala data alle fiamme. I regimi iraniano e saudita fecero scelte diverse: il primo cercò di piegare i film alla propaganda; il secondo proibì del tutto di proiettarl­i.

Shihab, che ha studiato cinema all’university of Southern California con George Lucas come compagno («Un ribelle, un birichino» ricorda), ha trovato modo di sfruttare le sue competenze diventando viceminist­ro dell’informazio­ne, producendo cartoni tv per bambini, e ideando il sistema video che permise alle studentess­e nelle università segregate di assistere alle lezioni da una stanza separata, comunicand­o via microfono.

Ora anche lui ha fatto richiesta di una licenza: «Apriremo in centri commercial­i, a Gedda e a Taif, poi vogliamo costruire un cinema». Dopo le tante sofferenze di Fuad per difendere il suo sogno, gli eredi rischiano però d’essere schiacciat­i dalla competizio­ne di rivali internazio­nali come l’americana «AMC Entertainm­ent Holdings» e «VOX Cinemas» di Dubai in un mercato che potrebbe fruttare un miliardo di dollari l’anno.

Shihab è ottimista: c’è un’intera industria da costruire, dalla formazione degli attori alla produzione «made in Saudi». I talenti non mancano, specie a Gedda: il comico Hisham Fageeh, protagonis­ta l’anno scorso della prima commedia romantica saudita, Barakah incontra Barakah, che ha iniziato studiando e facendo stand-up in America, spiega che la grande palestra di molti giovani attori e registi è stata Youtube (popolariss­imo nel Regno). Hakeem Jomah, medico di profession­e e autore del primo horror locale, Madayen, fa parte di un piccolo gruppo di cineasti undergroun­d ansiosi di mostrare per la prima volta i loro film non più solo ai festival stranieri ma anche in patria. Entrambi sono convinti che il pubblico saudita è pronto per storie capaci di sfidare i tabù sociali.

Peccato che Fuad Jamjoom, morto cinque anni fa, non potrà vedere questa rivoluzion­e.

Segregazio­ne e tabù Le sale avranno sezioni separate per uomini e donne. «Ma faremo film che sfidano i tabù»

 ?? (foto di Iman Al-dabbagh) ?? Grande schermo L’attore comico Hisham Fageeh con la moglie, la gallerista Raneen Bukhari. È diventato celebre prima con Youtube, quindi al cinema
(foto di Iman Al-dabbagh) Grande schermo L’attore comico Hisham Fageeh con la moglie, la gallerista Raneen Bukhari. È diventato celebre prima con Youtube, quindi al cinema

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