Corriere della Sera

La solitudine di un bambino

Nel romanzo di Gian Mario Villalta la storia di un’infanzia nel Nordest anni Sessanta

- di Giulia Ziino

«Venne il momento in cui “le bestie” non erano più gli animali per eccellenza, ma prodotto per l’industria, diviso in due categorie merceologi­che: le “bestie da latte” e le “bestie da carne”. A quel punto la puzza era diventata insopporta­bile e fastidiosa per tutti». Se questa è la fine — lo spartiacqu­e che segna il passaggio da uno ieri contadino a un oggi fatto di piccole industrie, villette ammobiliat­e, allevament­i intensivi — l’inizio è da ricercarsi molto prima, quando le «bestie» — le mucche, uniche tra tutti a incarnare l’essenza stessa dell’animale, senza altre specifiche — vivevano vicino all’uomo, dentro stalle così calde che il sabato pomeriggio ci si poteva portare una tinozza e farsi il bagno, a lungo e riscaldati.

È qui, in questo difficile e remoto universo di provincia — «non dico che era una buona cosa, dico che era diverso» — che cresce il bambino voce narrante di Bestia da latte, romanzo di Gian Mario Villalta che Sem-società Editrice Milanese manda domani in libreria. Una bestia da latte — «destinata a una più lunga pazienza, per produrre di più, per molto più tempo» — in un mondo chiuso e limitato di bestie da carne — avide di vita e nutrimento, capaci solo di ingozzarsi e morire eppure così reali, integrate.

Lo scenario è crudo: gli anni Sessanta, un mondo povero, ancora contadino, un Nordest piatto e acquitrino­so dove strappare alla terra di che vivere è una lotta quotidiana, uguale da sempre. Famiglie in cui i padri comandano su figli e donne, senza appello. In cui i bambini non vengono cresciuti ma «domati». Quadro nel quadro, la casa dove la «bestia da latte» nasce e cresce: un nonno padrone, reso violento dall’alcol, che sfoga la sua rabbia a cinghiate. Non sulla giovane bestia da latte — il «Capitano», l’erede immacolato —, che adora, ma su Giuseppe, il cugino del protagonis­ta: maggiore di qualche anno, colpevole solo di essere nato da Anna, la figlia troppo bella, troppo intensamen­te desiderata dagli uomini per non finire male e disonorare la famiglia.

Una violenza cruda e concentrat­a, che prende a botte un singolo ma si diffonde velenosa su tutti gli abitanti della casa, soffocando­li. Quando quel nonno predatore muore, il nipote prediletto crede che comincerà una nuova era, una stagione di pace. Non sarà così: in famiglia resteranno vivi gli odi e la vena bestiale del nonno tornerà a battere forte in Giuseppe, che da vittima si fa carnefice. E questa volta a subire sarà il cugino fragile, la bestia da latte, il bambino. Un undicenne le cui giornate diventano incubi pieni di agguati, pugni, legnate, offese. L’ira di Giuseppe arriva sempre imprevista — durante un gioco, nei campi —, la miccia che la accende sempre diversa. Il bullo dentro casa, alle calcagna, nascosto dietro al volto del cugino un tempo solidale, compagno di giochi. E nessuno che se ne accorge: «Non ero trascurato, questo no, la pulizia, il nutrimento, il sonno, il modo di parlare, tutto era seguito con attenzione, anche l’acquisto dei libri da leggere, la scelta dei vestiti. Non ero affatto trascurato, ero solo». Una distanza che non sarà mai colmata, neanche in età adulta, parlando da uomo con la madre ormai anziana, ricordando episodi drammatici come l’essere stato scaraventa­to giù da un albero e aver patito tre giorni di incoscienz­a per un trauma cranico: «Secondo lei era normale. I bambini hanno sempre fatto così (...). Non c’è stata la minima possibilit­à di comunicarl­e questo concetto semplice: per qualche anno ho avuto paura ogni singolo giorno e nessuno se n’è mai accorto».

Sul rapporto con Giuseppe — e l’ansia che ne consegue, la paura — e sul silenzio che divide la sua vittima dai propri genitori, ciechi di fronte agli eventi, si costruisce il libro. Storia di formazione, di crescita di un singolo individuo ma anche vicenda corale, ritratto di una famiglia minata in profondità da piccoli odi e rivalse sotterrane­e, guerre di posizione portate avanti per stabilire chi tra mariti, nuore, suocere debba «comandare». Villalta — poeta e narratore, critico, direttore artistico del Festival letterario pordenonel­egge — usa le parole con cura e lucida freddezza, portandoci dentro la mente e le paure di un bambino di 11 anni con la credibilit­à che solo la scrittura sa trovare. Tenendo la trama sospesa fino alla fine. Nato a Pasiano, in provincia di Pordenone, le terre che racconta sono anche le sue. E quei campi, quelle famiglie che in pochi anni si fanno «moderne» — i soldi, le prime aziende agricole, la tv in salotto, gli anni Ottanta che spingono fuori dalla porta — non sono solo uno sfondo ma un pezzo vivo del romanzo, inseparabi­le dal resto.

In vista del boom

Un mondo difficile e duro, in cui il capofamigl­ia domina sulle donne e sui figli. Un’italia contadina che sta per conoscere il benessere

 ??  ?? Ron Mueck (1958), Boy (1999, mixed media), Venezia, 48esima Biennale d’arte (courtesy dell’artista, Anthony d’offay, Hauser & Wirth)
Ron Mueck (1958), Boy (1999, mixed media), Venezia, 48esima Biennale d’arte (courtesy dell’artista, Anthony d’offay, Hauser & Wirth)

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