Trump va avanti sui dazi
Il Pentagono: così mette a rischio le alleanze
WASHINGTON L’ultimo tentativo lo hanno fatto martedì mattina, 6 marzo, il segretario di Stato Rex Tillerson e il capo del Pentagono James Mattis. In una riunione nello Studio Ovale, scrive il Washington Post, hanno avvertito Donald Trump: la stretta sui dazi «mette a rischio» i rapporti con gli alleati più stretti degli Stati Uniti. Vale a dire Unione Europea, Canada, Messico, Giappone. Le pressioni, a quanto pare, hanno dato qualche frutto. «Sono possibili eccezioni per Messico, Canada e altri Paesi, da valutare caso per caso», ha dichiarato ieri la portavoce della Casa Biana Sarah Sanders.
Già oggi il presidente potrebbe firmare l’ordine esecutivo per applicare una tariffa del 25% sulle importazioni di acciaio e del 10% su quelle di alluminio. La decisione ha provocato le dimissioni del consigliere economico Gary Cohn, contrario alla manovra.
Da Bruxelles ieri è arrivata la risposta della Commissione europea: un elenco di prodotti made in Usa da colpire con tariffe da definire. Il valore totale delle merci è pari a 2 miliardi e 830 milioni di euro, cioè un terzo rispetto all’export europeo soggetto ai dazi trumpiani. È il limite massimo consentito dalle norme dell’organizzazione mondiale del commercio per il cosiddetto «ribilanciamento» dei sovrapprezzi.
La lista, inviata ai Paesi membri per eventuali aggiustamenti, è per il momento riservata. È stato, però, possibile ottenerne una copia: quattro pagine con 187 voci, di cui 103 nel settore «ferro e acciaio» per un valore di 853 milioni di euro. Il resto viene da articoli tessili e agricoli. Ci sono dunque i semilavorati siderurgici, barre, tubi, cavi e poi «motocicli» (la Harley Davidson non è citata esplicitamente), motori per le barche da diporto, jeans, maglioni di lana, t-shirt, kit per il trucco da donna, «attrezzatura per manicure e pedicure», diverse qualità di riso, i fagioli rossi, il succo di arancia e di cranberries, il Bourbon Whiskey del Kentucky, sigari e sigarette, tabacco da pipa e da masticare. Tutte cose che potrebbero costare di più per i consumatori europei. Sul versante dell’export verso gli Stati Uniti, invece, l’italia figura al terzo posto dei Paesi danneggiati, alle spalle di Germania e Olanda e prima di Svezia, Spagna, Francia e Regno Unito.
La Ue, dunque, risponde nei limiti delle regole, ma allargando il campo. È un segnale politico. Come dire: anche noi siamo in grado di rilanciare. Una prospettiva che preoccupa Christine Lagarde, direttrice del Fondo monetario: «In una guerra commerciale nessuno vince. E ci sarà un calo della crescita». La diplomazia europea a Washington è ancora al lavoro. Nelle scorse settimane, secondo indiscrezioni raccolte dal Corriere, una delegazione guidata dall’ambasciatore Ue, David O’ Sullivan, ha incontrato il repubblicano Paul Ryan, lo Speaker della Camera. Risposta di Ryan: «Sono d’accordo, con voi. Ma anch’io sono rimasto spiazzato». Lo stesso Mattis si è trovato di fronte a un piano diverso da quello iniziale. In un «memo» del 22 febbraio, scriveva: «Siamo preoccupati per l’impatto delle tariffe sui nostri alleati chiave. Sono preferibili interventi mirati… ed è essenziale spiegare che il nostro obiettivo è la sovrapproduzione cinese».