Corriere della Sera

CENTRODEST­RA UNITO SOLO IN APPARENZA E DEM NEL CAOS

- di Massimo Franco

Quando il leader leghista Matteo Salvini insinua un accordo «tra Paolo Gentiloni e Luigi Di Maio a partire dalle poltrone per arrivare al governo», gioca di sponda con i malumori montanti nel Pd. Accredita gli stessi sospetti lanciati nelle ultime ore dal segretario dimissiona­rio, Matteo Renzi, verso esponenti del suo stesso partito. E sotto sotto spera che alla fine alcuni settori dem facciano un accordo con il M5S, lasciando alla Lega la prateria dell’opposizion­e e l’intero voto di centrodest­ra. La pressione del Pd su Renzi e sull’intero gruppo dirigente perché si dimetta «davvero» dopo la disfatta del 4 marzo sembra in aumento. Lo chiede per tutti l’ex sottosegre­tario Angelo Rughetti. Il vertice del partito assicura che il segretario lo ha fatto «formalment­e» già il 5 marzo, ma lasciando aperte molte incognite. Renzi ha raggiunto almeno un risultato: a parole, quasi tutto il partito giura di essere contro il dialogo con il movimento di Di Maio. Ma la sinistra rimane nel caos, e nessuno può prevedere gli sviluppi nei prossimi giorni. È più chiaro quanto accade nel centrodest­ra, con un cambio di lessico che rivela i nuovi equilibri di potere. Nei comunicati della Lega, Salvini non è più il segretario e candidato premier ma il «leader del centrodest­ra». Per la prima volta dal 1994, vuole far sapere che la guida è passata di mano. Ora esiste una diarchia, ma si presenta sbilanciat­a a favore di Salvini. Eppure, il fondatore di FI si dichiara «regista» della coalizione. E i tre gruppi

L’opzione

Prove di leadership da parte di Salvini a spese di Forza Italia senza escludere l’opzione del voto anticipato

che la compongono continuera­nno a andare separati alle consultazi­oni al Quirinale.

Ma fino a qualche anno fa, il primato berlusconi­ano si rifletteva nella capacità di incidere nei giochi interni della Lega; di muovere pedine che mostravano una sorta di doppia lealtà: all’allora capo del centrodest­ra e al partito di appartenen­za. Ora, invece, si indovina il contrario. L’avanguardi­a della colonizzaz­ione di FI da parte della Lega salviniana è stata l’elezione in Liguria del presidente berlusconi­ano Giovanni Toti, due anni fa: vittoria che non prefigurav­a più un rapporto asimmetric­o tra un berlusconi­smo «grande» e alleati «piccoli». Lo schema ligure racchiudev­a le ambizioni di primato di Salvini, esaltate ora da una controvers­a riforma elettorale e da una radicalizz­azione a destra dell’elettorato.

L’intuizione ulteriore è stata quella di «snaturare» il Carroccio, depurandol­o almeno nominalmen­te delle radici nordiste e nazionaliz­zandolo. Salvini continua a elencare le città del centro e del sud Italia dove il leghismo ha preso consensi. Sembra dire a FI che il leader del centrodest­ra nazionale è lui. E alcuni parlamenta­ri berlusconi­ani del Nord si sono subito allineati. I dubbi sull’estremismo anti-immigrati, l’antieurope­ismo che faceva dire a Berlusconi «garantirò io per Salvini in Europa», sono evaporati.

Il problema è che rimangono, corposi, a Bruxelles e negli Stati Uniti, dove l’ ipotesi di un Salvini premier viene bollata come un favore al presidente russo, Vladimir Putin, di cui è ammiratore. Ma l’impression­e è che il capo leghista sia pronto a governare come a rimanere all’opposizion­e, sicuro di ereditare il voto berlusconi­ano. Il presidente dei suoi deputati, Massimilia­no Fedriga, non esclude nemmeno elezioni anticipate: pur vedendo spuntare, alla fine della crisi, un governo tra M5S e parte del Pd.

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