Corriere della Sera

Il risiko sulle presidenze di Camera e Senato blocca subito la trattativa

La Lega teme l’asse tra Forza Italia e parte dei democratic­i

- di Francesco Verderami

Tre schieramen­ti, due ROMA cariche istituzion­ali, quattro partiti a contenders­ele e talmente tante variabili da far ammattire un maestro di scacchi. Sulle presidenze delle Camere lo stallo è destinato a protrarsi, anche perché una delle forze in campo è già formalment­e senza guida e non è detto che lunedì — dopo la direzione del Pd in cui Renzi passerà la mano — si troverà qualcuno al Nazareno che parli a nome di tutti. Ma più si avvicina l’appuntamen­to per l’elezione della seconda e terza carica dello Stato, più si assiste a una guerra di posizionam­ento e al gioco di veti incrociati.

Perché è vero che il centrodest­ra avrebbe i numeri per eleggersi autonomame­nte il presidente del Senato, ed è altrettant­o vero che gli accordi iniziali tra Salvini e Berlusconi assegnavan­o al leghista Calderoli quel ruolo. Ma ora che il Carroccio ha acquisito il diritto a indicare il premier, il patto si mostra sbilanciat­o. E i forzisti ne chiedono il riequilibr­io, ipotizzand­o Romani sullo scranno più alto di palazzo Madama. Questa mossa se ne porta dietro un’altra, che coinvolge il Pd e la carica di Montecitor­io.

D’altronde, nella prospettiv­a di un governo di centrodest­ra — anche solo di minoranza — servirebbe almeno l’appoggio esterno di qualcuno. E secondo autorevoli dirigenti berlusconi­ani, da importanti esponenti del Pd sarebbero arrivati segnali positivi. Anche perché — a sentire il neoiscritt­o dem Calenda — «qualsiasi pressione potesse arrivare su di noi per farci appoggiare un gabinetto dei grillini, diremmo no». Non è chiaro se il ministro per lo Sviluppo economico si riferisca al Colle, è certo che un’eventuale intesa centrodest­ra-dem sconta due controindi­cazioni.

Intanto nel Pd, dove i maggiorent­i sono divisi su una questione di metodo, se cioè stare fuori dai giochi delle presidenze o accettare le avance: i primi non vogliono che il partito dia l’impression­e di predispors­i a un accordo di governo; i secondi sostengono che si potrebbe separare chiarament­e l’intesa istituzion­ale da implicazio­ni politiche. È chiaro che Renzi sta con i primi, anzi li guida. E in ogni caso vorrebbe garanzie per non vedere l’odiato Franceschi­ni eletto a terza carica dello Stato.

L’altra controindi­cazione ha il nome di Salvini, che ha scorto il trappolone. A parte il fatto che l’ipotesi di un governo di minoranza — destinato a durare il tempo di uno starnuto — non gli sta bene, sarebbe ovvio che per farlo partire il Pd chiederebb­e un premier «scolorito»: uno come Giorgetti o come Zaia per iniziare, per finire magari a Maroni, impegnato a sostenere che «la sinistra non è morta». Insomma, dopo aver sconfitto il Cavaliere nelle urne, il leader leghista gli riconsegne­rebbe lo scettro nel Palazzo. Commento dopo il pranzo con Toti: «Ma siamo matti?».

Sull’altro lato della barricata anche i Cinque Stelle si danno da fare con i democratic­i, ma finora senza risultati. Ieri a palazzo Madama hanno sentito l’ex capogruppo del Pd Zanda rispondere stizzito a un suo interlocut­ore: «Basta. Nessuno ha idea di cosa possa succedere e qui tutti si giocano già la schedina». L’irritazion­e pare fosse dovuta a una telefonata appena ricevuta: «Ciao, come stai? Saresti disponibil­e per la presidenza del Senato?». Per uno che ha vissuto la Prima Repubblica, l’assenza di metodo nelle trattative è peccato capitale.

E non è solo un problema di etichetta. Il rischio è che la partita delle presidenze produca uno stallo. Un problema avvertito in Forza Italia e (interessat­amente) evidenziat­o all’alleato leghista: cosa accadrebbe se il centrodest­ra conquistas­se per sé palazzo Madama e poi a Montecitor­io si bloccasse tutto? Così si ritorna alla manovra con il Pd. Ma la risposta di Salvini (altrettant­o interessat­a) è che non si può escludere pregiudizi­almente dalle cariche istituzion­ali un partito del trenta per cento...

È provocando un brivido sulla schiena dei berlusconi­ani che il capo del Carroccio ricorda

La contromoss­a Salvini di fronte alla «trappola» minaccia di mettersi d’accordo con i 5 Stelle

agli alleati quali siano oggi i nuovi rapporti forza. Perché i conti (cioè le presidenze) si fanno con due osti (Lega e M5S), e a un’azione ostile rispondere­bbe con una reazione ostile: un accordo tra i due partiti sulle presidenze, un’intesa per un governo istituzion­ale in modo da cambiare la legge elettorale, e poi subito al voto per dividersi il Paese. I numeri in Parlamento ci sarebbero, è che ci sono problemi con i numeri di telefono. Ieri il grillino Paragone ha provato a chiamare i suoi vecchi amici. Risultava occupato. Momentanea­mente...

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