Il risiko sulle presidenze di Camera e Senato blocca subito la trattativa
La Lega teme l’asse tra Forza Italia e parte dei democratici
Tre schieramenti, due ROMA cariche istituzionali, quattro partiti a contendersele e talmente tante variabili da far ammattire un maestro di scacchi. Sulle presidenze delle Camere lo stallo è destinato a protrarsi, anche perché una delle forze in campo è già formalmente senza guida e non è detto che lunedì — dopo la direzione del Pd in cui Renzi passerà la mano — si troverà qualcuno al Nazareno che parli a nome di tutti. Ma più si avvicina l’appuntamento per l’elezione della seconda e terza carica dello Stato, più si assiste a una guerra di posizionamento e al gioco di veti incrociati.
Perché è vero che il centrodestra avrebbe i numeri per eleggersi autonomamente il presidente del Senato, ed è altrettanto vero che gli accordi iniziali tra Salvini e Berlusconi assegnavano al leghista Calderoli quel ruolo. Ma ora che il Carroccio ha acquisito il diritto a indicare il premier, il patto si mostra sbilanciato. E i forzisti ne chiedono il riequilibrio, ipotizzando Romani sullo scranno più alto di palazzo Madama. Questa mossa se ne porta dietro un’altra, che coinvolge il Pd e la carica di Montecitorio.
D’altronde, nella prospettiva di un governo di centrodestra — anche solo di minoranza — servirebbe almeno l’appoggio esterno di qualcuno. E secondo autorevoli dirigenti berlusconiani, da importanti esponenti del Pd sarebbero arrivati segnali positivi. Anche perché — a sentire il neoiscritto dem Calenda — «qualsiasi pressione potesse arrivare su di noi per farci appoggiare un gabinetto dei grillini, diremmo no». Non è chiaro se il ministro per lo Sviluppo economico si riferisca al Colle, è certo che un’eventuale intesa centrodestra-dem sconta due controindicazioni.
Intanto nel Pd, dove i maggiorenti sono divisi su una questione di metodo, se cioè stare fuori dai giochi delle presidenze o accettare le avance: i primi non vogliono che il partito dia l’impressione di predisporsi a un accordo di governo; i secondi sostengono che si potrebbe separare chiaramente l’intesa istituzionale da implicazioni politiche. È chiaro che Renzi sta con i primi, anzi li guida. E in ogni caso vorrebbe garanzie per non vedere l’odiato Franceschini eletto a terza carica dello Stato.
L’altra controindicazione ha il nome di Salvini, che ha scorto il trappolone. A parte il fatto che l’ipotesi di un governo di minoranza — destinato a durare il tempo di uno starnuto — non gli sta bene, sarebbe ovvio che per farlo partire il Pd chiederebbe un premier «scolorito»: uno come Giorgetti o come Zaia per iniziare, per finire magari a Maroni, impegnato a sostenere che «la sinistra non è morta». Insomma, dopo aver sconfitto il Cavaliere nelle urne, il leader leghista gli riconsegnerebbe lo scettro nel Palazzo. Commento dopo il pranzo con Toti: «Ma siamo matti?».
Sull’altro lato della barricata anche i Cinque Stelle si danno da fare con i democratici, ma finora senza risultati. Ieri a palazzo Madama hanno sentito l’ex capogruppo del Pd Zanda rispondere stizzito a un suo interlocutore: «Basta. Nessuno ha idea di cosa possa succedere e qui tutti si giocano già la schedina». L’irritazione pare fosse dovuta a una telefonata appena ricevuta: «Ciao, come stai? Saresti disponibile per la presidenza del Senato?». Per uno che ha vissuto la Prima Repubblica, l’assenza di metodo nelle trattative è peccato capitale.
E non è solo un problema di etichetta. Il rischio è che la partita delle presidenze produca uno stallo. Un problema avvertito in Forza Italia e (interessatamente) evidenziato all’alleato leghista: cosa accadrebbe se il centrodestra conquistasse per sé palazzo Madama e poi a Montecitorio si bloccasse tutto? Così si ritorna alla manovra con il Pd. Ma la risposta di Salvini (altrettanto interessata) è che non si può escludere pregiudizialmente dalle cariche istituzionali un partito del trenta per cento...
È provocando un brivido sulla schiena dei berlusconiani che il capo del Carroccio ricorda
La contromossa Salvini di fronte alla «trappola» minaccia di mettersi d’accordo con i 5 Stelle
agli alleati quali siano oggi i nuovi rapporti forza. Perché i conti (cioè le presidenze) si fanno con due osti (Lega e M5S), e a un’azione ostile risponderebbe con una reazione ostile: un accordo tra i due partiti sulle presidenze, un’intesa per un governo istituzionale in modo da cambiare la legge elettorale, e poi subito al voto per dividersi il Paese. I numeri in Parlamento ci sarebbero, è che ci sono problemi con i numeri di telefono. Ieri il grillino Paragone ha provato a chiamare i suoi vecchi amici. Risultava occupato. Momentaneamente...