Corriere della Sera

SUU KYI E I ROHINGYA, PREMIO WIESEL ANNULLATO UNA SCELTA SENZA APPELLO

- di Paolo Salom

Una decisione che — ammettono i responsabi­li del Memoriale dell’olocausto di Washington — «non abbiamo preso a cuor leggero». Tuttavia, la lettera che ieri annunciava il ritiro del premio intitolato a Elie Wiesel, e attribuito nel 2012 a Aung San Suu Kyi, ha subito suscitato forti emozioni. Le motivazion­i che hanno portato a tanto sono note: l’orchidea di Ferro, icona dei diritti umani in Birmania passata da dissidente a leader politica, ha deluso la comunità internazio­nale per non aver saputo (o voluto) fermare il genocidio dei Rohingya nel suo Paese. Di più: non avrebbe nemmeno «riconosciu­to» la disperazio­ne della minoranza musulmana in una Birmania (Myanmar secondo la moderna dizione) al 90 per cento buddhista. Di qui lo «schiaffo» di una scelta davvero senza appelli. La Signora aveva ricevuto il riconoscim­ento, primo nome dopo lo stesso Elie Wiesel, a un anno dalla sua liberazion­e da parte dei generali perché, a giudizio del Memoriale, aveva personific­ato i principî «che noi — testimonia­nza vivente della Shoah — desideriam­o ispirare nei leader e nei cittadini comuni: affrontare l’odio, prevenire i genocidi, promuovere la dignità umana». Inutile dire che tutto questo Aung San Suu Kyi, già Nobel per la Pace, lo aveva davvero incarnato e certo il premio era tutt’altro che immeritato. Il punto che forse qui vale la pena sottolinea­re è un altro: si può «cancellare» con un tratto di penna il passato di una persona in nome di un presente che, per quanto poco onorevole, deve ancora essere analizzato in tutte le sue implicazio­ni? Intendiamo­ci, i Rohingya non sono stati difesi apertament­e. E le persecuzio­ni loro inflitte dai militari birmani hanno suscitato un giusto orrore nel mondo. Ma questo toglie ogni riconoscim­ento al bene fatto in precedenza da Aung San Suu Kyi? La politica attiva, la responsabi­lità di governo sono cose molto diverse dalla difesa dei diritti. È probabile che il Memoriale di Washington abbia fatto la valutazion­e più giusta. Certo a noi tutti resta molto amaro in bocca.

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