Storia di due quasi amiche in cura per le ferite del cuore
Da oggi in libreria per Longanesi «Fai piano quando torni», primo romanzo della giornalista Silvia Truzzi
Che cosa succede quando una donna giovane, colta e depressa si trova a dividere la stanza in ospedale con una signora anziana, ignorante e piena di vita? Si scatena la danza forsennata di due personalità forti e contrapposte che si respingono e si attirano, fino a diventare «quasi amiche», ma soprattutto se stesse. L’amicizia femminile — un’amicizia estrema, atipica e perciò commovente — fa da sfondo al romanzo d’esordio di Silvia Truzzi, la giornalista che da ragazza voleva fare la giurista e invece si è rivelata scrittrice. Fai piano quando torni (Longanesi) è il racconto implacabile della guerra dei mondi che oppone Margherita, una bella avvocata incapace di accettare le conseguenze del dolore, alla signora Anna, una matrona attempata che avrebbe tutti i motivi per compiangersi (infanzia misera, marito gretto, figlia indigeribile) e invece affronta i cataclismi dell’esistenza con l’energia di una leonessa e la leggerezza di una farfalla.
Fin dai primi capitoli il lettore fa il tifo perché la più giovane venga contagiata dall’entusiasmo della più anziana Che è maleducata, invadente, faticosa, ma viva: una rarità. La signora Anna ha un’arma segreta per guadagnarsi l’affetto di Margherita. Una storia clandestina, e che storia. Quella tra lei e Nicola attraversa mezzo secolo e ha resistito al tempo, alla lontananza e persino al matrimonio felice di lui. A testimoniarla ci sono decine di lettere sgrammaticate e bellissime. È un amore rimasto sospeso nel limbo delle passioni impossibili. Un fulmine che non diventa mai tuono, ma rende l’aria elettrica.
Chi non ne conserva uno in qualche cassetto della memoria, rigorosamente chiuso a chiave? Un incontro d’anime, assaporato o solamente vagheggiato durante la giovinez- za, e poi rimpianto o rimosso per tutta la vita. Mentre alcune relazioni producono effetti concreti (figli, case, sostegno reciproco contro la solitudine), altre — di solito più intense e brucianti — fanno vibrare la corda dei sogni, dandoci la benzina immateriale di cui abbiamo bisogno per andare avanti. Il compito di Margherita sarà di farlo capire alla signora Anna. Ma, per riuscirci, dovrà prima capirlo lei, degnandosi di dare retta ai due psicanalisti — una dei quali è la mamma, idea degna di Woody Allen — che si alternano con scarso profitto al suo ca- pezzale nel reparto di ortopedia.
Se Anna ha amato un uomo irraggiungibile per tutta la vita, Margherita è stata lasciata da quello che pensava di avere raggiunto per sempre. Una condizione in cui non è difficile rispecchiarsi. Tutti abbiamo ricevuto una coltellata dal destino: di solito un distacco subito e mai completamente accettato. La reazione all’affronto è la chiusura. Smettere di vivere le emozioni per non essere costretti a subirle. Chiusura fa rima con paura ed è la vera questione politica di questa nostra epoca ansioge- na. Nonostante tutto, Margherita ritroverà il coraggio dell’apertura. Uscirà dal suo dolore di esistere e lo farà nell’unico modo possibile. Attraversandolo fino alla fonte, che nel suo caso si identifica con la scomparsa precoce del padre. Un avvocato dal cuore debole, forse perché troppo grande, che se n’è andato di colpo lasciandola senza difese.
Si può accettare l’inaccettabile senza per questo rassegnarvisi? Il percorso di Margherita verso la consapevolezza passa attraverso i ricordi dolci e strazianti di quel padre amato e perduto, che entra nel romanzo con un’immagine
Personalità opposte Anna, anziana e piena di vita, e Margherita, giovane e depressa, si conoscono in ospedale
memorabile: l’abitudine di regalare alla moglie un mazzo di gigli bianchi ogni mercoledì. Dopo la sua morte, la madre di Margherita ha continuato a comprarli. Anche la figlia cerca disperatamente di trattenere la presenza del padre nella sua vita. La vediamo annusare il suo profumo, la ascoltiamo mentre gli parla al cimitero. E un po’ alla volta ci accorgiamo di volere bene anche a lei, che all’inizio del racconto non ci era poi così simpatica.
I grandi scrittori sostengono che non è compito della letteratura impartire lezioni esistenziali e dispensare medicine per l’anima. Ma io sono solo un grande lettore e nei libri continuo a cercare un sollievo, una luce nel buio. Margherita e la sua amica improbabile mi hanno ricordato come le ferite del cuore vadano affrontate e curate con coraggio, ma senza vergognarsi delle cicatrici che lasciano. Perché le cicatrici sono la cerniera di tenerezza che ci impedisce di sprofondare nel cinismo.